Della crisi politico-economica venezuelana se ne discute ormai da diversi anni. Tuttavia, al di là delle cause che possono aver determinato un’emergenza umanitaria e nazionale senza precedenti, il conflitto sociale e politico in Venezuela è tutt’altro che un fenomeno recente. Lo scontro odierno tra chavisti e oppositori, infatti, affonda le sue radici nell’epoca coloniale e nello scontro fra le differenti etnie e classi sociali.
Colonialismo e geodemografia
Durante l’epoca coloniale in Venezuela, a differenza di altri territori come Perù o Messico, non esisteva un sistema prevalente di produzione locale costituito da mano d’opera indigena. Maggiore è stato quindi il costo umano ed economico per il paese che scelse di importare il lavoro direttamente dall’Africa: dal periodo della conquista fino al 1797 (quando formalmente terminò la schiavitù africana) si attesta infatti che circa 100 mila schiavi africani siano stati portati in Venezuela.
L’economia venezuelana, sia a livello agricolo che commerciale, appariva però piuttosto diversificata: oltre agli schiavi dall’Africa esistevano anche gruppi di schiavi con qualche pianta di cacao in loro possesso o giornalieri liberi che conservavano una certa autonomia dall’élite creola. Nei centri abitati, inoltre, l’artigianato e il commercio al dettaglio erano settori partecipati anche dai meno abbienti che in questo modo guadagnavano una dose di riscatto sociale.
La posizione geografica del paese incoraggiava poi tale diversificazione: idee, scoperte e nuove culture si diffondevano in Venezuela approdando nelle aree portuali e costiere, già all’epoca contraddistinte da un’alta concentrazione di abitanti. In particolare, le colonie olandesi delle Antille, ma anche quelle inglesi e francesi, si interfacciavano continuamente con il tessuto cittadino venezuelano attraverso il commercio e il contrabbando.
Il Venezuela era quindi una realtà eterogenea, aperta, mutevole e, per questo, anche instabile.
I cosiddetti pardos(figli dell’incontro tra popolazione africana, indigena ed europea) avvertivano quindi un profondo desiderio di ascesa sociale all’interno di una gerarchia tuttavia dominata dall’aristocrazia creola. Fu la Real Cédula de Gracias al Sacar del 1795 che, oltre a fungere da acceleratore al processo di indipendenza, permise ai pardos di elevare il proprio status sociale mediante un pagamento proporzionale al “peso” del loro sangue africano.
Non è quindi un caso che parte dei conflitti che hanno avuto luogo in Venezuela per tutto l’Ottocento, durante la guerra d’indipendenza e quella federale, abbiano avuto come sfondo la contrapposizione etnica e sociale e siano stati caratterizzati dalla lotta per la redistribuzione della ricchezza e del potere.
L’evoluzione del potere
Con la scoperta dei primi giacimenti petroliferi, gli anni Venti del XX secolo segnarono un forte cambiamento nell’economia e nella società venezuelana. Numerose compagnie petrolifere statunitensi ed europee fecero ingresso nel paese, tanto che nel 1936 il Venezuela era già secondo produttore di greggio a livello mondiale. L’arrivo degli imprenditori stranieri era sostenuto inoltre dal concetto di democrazia razziale che iniziava a diffondersi in Venezuela proprio in quegli anni e che, sotto l’ala paternalista dell’Occidente, faceva della miscegenazione e del meticciato l’identità nazionale.
Negli anni Ottanta il pacchetto di misure neoliberali, promosso da Carlos Andrés Pérez, determinò un forte malcontento popolare svelando le persistenti fratture sociali che segnavano ancora il paese. La ribellione del 1989, conosciuta come il Caracazo, denunciava le discriminazioni economiche, etniche e classiste trascurate dalla classe politica di allora. Hugo Chávez diventò quindi il rappresentante di tali istanze enfatizzandone la componente più nazionalista e populista.
Nella narrazione politica di quello che poi è stato presidente del Venezuela per ben 14 anni, centrale è stato il concetto di pueblo identificabile con il popolo pardo che incarna il cittadino ordinario venezuelano, povero e di estrazione mista, proprio comeChávez.
Parallelamente ai cambiamenti storici e politici in Venezuela, anche le dinamiche migratorie andavano diversificandosi. Alla ormai consistente immigrazione statunitense ed europea appartenente alla classe medio-alta (in particolare italiana, spagnola e portoghese), dagli anni Sessanta si era aggiunta anche quella andino-caraibica, spesso irregolare e costituita dagli strati popolari proletari e mestizos. Colombiani, guianesi ma anche dominicani, haitiani, peruviani ed ecuadoregni, si andavano a integrare nel tessuto sociale venezuelano più emarginato andando a rafforzare la base elettorale di Chávez. A Petare, uno dei quartieri più popolosi e poveri del comune di Sucre e di tutta l’America Latina, il 50% degli abitanti ha origini colombiane. Questa nuova sacca di popolazione si aggiunse in questo modo, sempre più compatta, al bacino elettorale chavista. A questo si aggiungeva anche il sostegno della comunità araba per l’inclinazione antisionista propria del chavismo.
A fine anni Novanta il 60% della popolazione venezuelana viveva in condizioni di povertà relativa o estrema. Il petrolio rimaneva la principale fonte di rendita per il paese e per questo motivo, tra il 2003 e il 2006, la PDVSA investì quasi 179 miliardi di dollari nelle cosiddette misiones, programmi sociali promossi dall’ormai presidente Hugo Chávez. Accanto alle misiones ci fu inoltre un intervento di regolarizzazione e naturalizzazione dei recenti immigrati andino-caraibici: nel 2010 i colombiani regolarizzati erano infatti quasi 1 milione.
Hugo Chávez non è stato quindi il portatore di nuove istanze e tantomeno il primo a difenderle. Nei suoi discorsi riportava alla luce fratture sociali centenarie: poveri e mestizos in una lotta politica contro le classi medio-alte impegnate nel settore petrolifero e riconducibili socialmente all’aristocrazia creola.
Demografia e potere, oggi
Nonostante gli interventi di inclusione sociale, Nicolás Maduro prende in eredità una realtà ancora divisa e in molti aspetti anche indebolita: la corruzione della casta militare ha compromesso il progetto originario di base popolare e la caduta verticale del prezzo del petrolio ha minato un sistema economico basato essenzialmente sull’esportazione dello stesso. Anche le relazioni con quella comunità andino-caraibica, tanto sostenuta da Chávez, sono mutate completamente: tra il 2015 e il 2016 Maduro ha ordinato la chiusura della frontiera colombo-venezuelana, espulso circa 25 mila colombiani e demolito le loro abitazioni.
Dei 5.4 milioni di venezuelani che hanno lasciato il paese per la crisi nazionale odierna, quasi 2 milioni si sono diretti in Colombia in un moto contrario migratorio rispetto a quello a cui il Venezuela era abituato a ricevere. La crisi attuale non è solamente la conseguenza dell’imposizione di un regime autoritario e clientelare ma anche della perdita del controllo territoriale e del collasso del sistema economico nazionale che fanno oggi del Venezuela uno dei paesi più violenti al mondo.
Sappiamo che i conflitti socio-politici nella regione latinoamericana presentano sempre un eterno oscillare tra plurismo e unamismo. All’interno di questo intramontabile dilemma, il Venezuela si presenta come un paese ancora internamente lacerato tra i fautori del nazional-bolivarismo sovranista devoti al panlatinismo e al popolo mitico venezuelano e i sostenitori della democrazia pluralista-panamericanista svuotata di ogni elemento nazionale. Una rottura sociale antica che affonda le sue radici nelle lotte di classe e nella questione razziale già esistenti all’epoca della guerra d’indipendenza e di quella federale. Una ferita purtroppo oggi ancor più profonda a causa dell’ossessione, sia interna che internazionale, per il controllo delle rendite di petrolio in Venezuela.