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TematicheAmerica LatinaDemocrazia e populismo in America Latina

Democrazia e populismo in America Latina

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E’ cosa nota che l’America Latina sia paradiso del populismo: lo è stata con Peròn, Chavez, Morales, lo è oggi con Maduro, Ortega, Obrador. Il filo che unisce questi protagonisti della storia politica latinoamericana va ricercato nell’eterna oscillazione tra democrazia e populismo, tra pluralismo e unanimismo, una condizione che sembra riemergere con forza e regolarità e che assume sempre lo stesso volto: quello di un “caudillo“, chiamato a comandare nella sua missione di redenzione della società da un male che puo’ assumere diverse facce, ieri imperialismo e comunismo, oggi  globalizzazione. La “comunidad” parla con una sola voce: la sua. Egli ne incarna l’anima più profonda, ne difende gli interessi, ne postula la assoluta centralità.

Politica e sviluppo: modelli di democrazia a confronto.

Il primo decennio del nuovo millennio si caratterizza per due comportamenti: da un lato alcuni Stati (Cile, Uruguay) hanno prediletto il consolidamento dello stato di diritto, dell’occidentalizzazione, l’adeguamento all’economia di mercato e l’integrazione attiva al sistema internazionale; altri invece (Venezuela e Bolivia) hanno evidenziato segni di un nuovo ciclo di populismo politico, caratterizzato da un fervente nazionalismo economico e da una reazione antiliberale. Sebbene gli altri paesi della regione si collocassero tra i due filoni (con evidenti sfumature che li posizionavano più vicini al primo, come Brasile e Perù, o al secondo, come Paraguay e Ecuador), tutti sono stati chiamati ad affrontare sfide analoghe quali il decollo economico e la cooperazione regionale. Alla luce di ciò, dunque, appare meno complesso comprendere il riemergere di nuove leadership carismatiche nella regione che si sono mostrate insofferenti ad ogni vincolo costituzionale. Rientrano in quest’ultima descrizione i presidenti del Messico (Obrador), del Venezuela (Maduro), del Brasile (Bolsonaro). Quest’ ultimo, nazionalista e conservatore, fin dal 2018 incarna, in un’ottica moderna, l’immaginario populista dell’uomo forte al potere, insofferente alle pratiche democratiche. Già nel 1993 in un discorso in parlamento, Bolsonaro tesseva le lodi della dittatura:” Non risolveremo mai i nostri seri problemi nazionali con questa democrazia irresponsabile”. Concretamente, questa estate egli ha fortemente voluto una riforma amministrativa che prevede la possibilità di cambiare la costituzione, permettendo allo stesso presidente di mutare la struttura del potere esecutivo, incluso dichiarare estinti alcuni organi e ministeri. Una retorica senza dubbio meno aggressiva ma non dissimile nei contenuti quella del presidente argentino Fernández. Eletto nel dicembre 2019, il suo programma di governo affonda nelle radici più profonde del peronismo: richiamo costante alla “Argentinidad”, all’unità sociale e a un nuovo “justicialismo”(rispolverato dal vecchio peronismo a seguito delle inchieste giudiziarie dell’ultimo governo di C.F de Kirchner).  La stessa giustizia sociale evocata nella recente riforma della giustizia, tanto contestata questa estate dai suoi oppositori politici, poichè unificherebbe la giustizia penale correzionale a quella penale economica, moltiplicando i tribunali federali nel paese e riducendo il potere dei magistrati.

Vecchi e nuovi problemi. La pandemia in America Latina.

Accanto a problemi antichi quali la tendenza a concentrare potere nella figura presidenziale, si evidenzia una scarsa ristrutturazione del sistema partitico, una limitata autonomia del potere legislativo e giudiziario, una debole funzione dei contrappesi del potere esecutivo. Ciò spiegherebbe le ricorrenti tentazioni di questo o quel leader di sfruttare la popolarità per governare in forma plebiscitaria scavalcando limiti istituzionali, modificando le regole costituzionali per prolungare la permanenza al potere.Il tutto appare rafforzato dalla dilagante corruzione politica, dalle inveterate pratiche clientelari, dalla concezione patrimonialistica della cosa pubblica. Alla base vi è in primo luogo la difficoltà di acclimatamento della democrazia rappresentativa in un contesto sociale caratterizzato, nelle repubbliche andine più che in quelle del cono sud, da profonde disuguaglianze sociali, e dalla incapacità delle istituzioni democratiche di soddisfare con successo e in tempi brevi le enormi aspettative di integrazione e di miglioramento materiale dei  settori sociali emarginati; In secondo luogo, l’espansione della democrazia sudamericana deve  fare i conti con la vitalità di un concetto di democrazia alternativo a quello liberale, populista appunto, estremamente sensibile ai temi della redistribuzione della ricchezza e della integrazione sociale dei settori popolari, ma refrattario al pluralismo e portato a trasporre  nella sfera politica l’universo etico manicheo del pensiero religioso. C’è da dire che la pandemia ha enfatizzato questo aspetto: i leader hanno sfruttato sapientemente la crisi come giustificazione per estendere il proprio mandato, indebolendo i contrappesi governativi e silenziando le critiche. Ad esempio, mentre in Venezuela Maduro tratteneva in casa dozzine di giornalisti e oppositori politici a causa del virus, in Nicaragua Ortega rilasciava migliaia di detenuti tranne i prigionieri politici; In Bolivia Áñez ha usato la pandemia per posticipare le elezioni, minacciando di proibire al principale oppositore politico di candidarsi; Nell’arcipelago delle S.Kittis and Nevis un stringente lockdown ha ostacolato l’opposizione durante la campagna elettorale per le  elezioni di giugno, proibendo agli osservatori internazionali di pervenire sull’isola. Non c’è tuttavia da generalizzare: difatti Uruguay e Costa Rica hanno risposto alla pandemia con efficienza e trasparenza, e nella Repubblica Dominicana e in Suriname i presidenti in carica si sono ritirati dopo aver perso le elezioni che si sono regolarmente tenute. Si tratta tuttavia di eccezioni: la pandemia ha senza dubbio accelerato un già esistente declino della democrazia. Di fronte alla crisi sanitaria paesi privi di un sistema democratico profondo finiscono per prediligere tattiche che aiutino i leader a consolidare il loro potere, in nome della sicurezza. Si teme dunque che le tensioni scaturite siano solo l’inizio di una nuova ondata di disordini che lascerebbe spazio a una ripresa dell’autoritarismo e a un peggioramento nell’area del trattamento di dignità e diritti.

Ilenia Giannusa,

Geopolitica.info

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