Da quando sono iniziate le attività di estrazione nel 1958, la regione del Delta del Niger ha subito un’inesorabile devastazione a livello ambientale, politico e sociale. Le compagnie petrolifere occidentali con in testa la Royal Dutch Shell hanno causato il vertiginoso deterioramento degli ecosistemi della zona, un tempo tra i più floridi al mondo, minacciando l’esistenza stessa delle popolazioni che li abitano e che da sempre vivono in simbiosi con il fiume e le foreste circostanti.
Quando nel 1960 la Nigeria ottenne l’indipendenza dal Regno Unito, in molti sperarono che la neonata industria petrolifera potesse fungere da traino per lo sviluppo della nazione e mai nessuno si sarebbe aspettato l’esatto contrario. Oggi il petrolio costituisce circa il 90% dell’export e il 50% delle entrate annuali del Paese. Tuttavia a beneficiare dei proventi dell’industria petrolifera sono state prevalentemente le élite governative e i militari, mentre la popolazione continua ad assistere impotente alla catastrofe climatica che si sta consumando nella regione del Delta. Così, se l’estrazione di greggio rimane ancora oggi il pilastro portante dell’economia nigeriana, tale attività ha reso invivibile l’intero delta del fiume Niger, attorno al quale vivono circa 40 milioni di persone di cui la metà costituita da giovani con meno di diciotto anni.
Tra le zone più colpite ci sono gli stati di Bayelsa e Ogoniland, dove furono scoperti i primi giacimenti: qui le fuoriuscite di petrolio hanno causato la morte dell’ecosistema fluviale, delle piante e degli animali che lo abitano come pesci, molluschi e granchi. A causa della moria della fauna fluviale, i pescatori tornano a riva con le reti semivuote e il poco pesce che riescono a catturare viene svenduto nei mercati locali e consumato nonostante la tossicità delle sue carni dovuta all’elevata concentrazione di idrocarburi e mercurio nell’acqua.
Oltre alla fauna acquatica, anche le sterminate foreste di mangrovie stanno lentamente morendo. Si stima che di questo passo le foreste di mangrovie nigeriana, le più estese del mondo e concentrate in gran parte sul delta del Niger, spariranno completamente entro 50 anni nonostante esse siano fondamentali per l’ecosistema in quanto arricchiscono le acque del fiume attirando pesci, mitigando gli effetti delle alluvioni, rallentando l’erosione del terreno e degli argini e catturano le emissioni di Co2 rendendo più respirabile la già inquinata aria della regione.
La scomparsa di questo ecosistema avrebbe importanti conseguenze: l’erosione degli argini e la distruzione delle foreste provocherebbe la diminuzione delle rendite agricole, diminuendone la produzione e causando un aumento delle spese, rendendole insostenibili per i piccoli agricoltori che si ritroverebbero senza lavoro e senza mezzi di sostentamento. Inoltre, verrebbe meno la protezione naturale offerta dalle mangrovie rendendo quindi la popolazione più vulnerabile alle inondazioni che causerebbero un maggior numero di sfollati e la distruzione di interi villaggi.
Le mangrovie subiscono anche gli effetti della deforestazione provocata dai numerosi giovani disoccupati. Questi, non riuscendo a trovare un lavoro o a migrare nelle grandi città, cercano forme alternative di sopravvivenza cimentandosi nel disboscamento per vendere il legname di mangrovia. Successivamente, le piante vengono sostituite con le Nypa Palm, piccole palme da frutto invasive ma più resistenti alle acque inquinate del Niger, più pratiche delle mangrovie ma inutili alla sopravvivenza dell’ecosistema.
La scomparsa di questo “polmone verde” avrebbe conseguenze tragiche per la popolazione causando un aumento della povertà e maggiore instabilità nella regione, mentre il mondo perderebbe l’ennesimo bioma per colpa delle fonti fossili.
I danni ambientali dell’estrazione del petrolio hanno anche deteriorato il rendimento dell’agricoltura locale: i campi ormai sono dei veri e propri giacimenti a cielo aperto resi sterili dalla presenza di greggio che ha permeato il suolo fino in profondità, distruggendo la composizione chimica del terreno e rendendo impossibile la crescita di tuberi e ortaggi. La crisi agricola viene ulteriormente aggravata dall’anomala frequenza di piogge acide generate dal flaring del gas, il quale rende la situazione talmente grave che gli agricoltori il più delle volte evitano di sprecare sementi e fertilizzanti rinunciando totalmente alla semina del terreno per minimizzare le perdite economiche. La presenza di idrocarburi nel suolo inficia la rendita dei raccolti – fino al 45% in meno – e sulla qualità del raccolto riducendone l’apporto nutritivo. Ne consegue che nei villaggi il cibo che viene venduto sulle bancarelle del mercato viene quasi completamente importato e rivenduto a prezzi più che aumentati esacerbando l’insicurezza alimentare. Secondo alcuni studi, le conseguenze delle fuoriuscite di petrolio potrebbero ridurre la sicurezza alimentare delle famiglie di oltre il 60% e aumenterebbero la malnutrizione e la fame tra i bambini del 24%. Le zone rurali, pur ospitando la maggior parte della popolazione, soffrono maggiormente da questa situazione dato il loro isolamento e l’inesistenza di servizi e infrastrutture a cui si aggiungono la negligenza delle compagnie petrolifere che non hanno perseguito la social responsibility, mentre il governo non ha mai incentivato concretamente politiche di supporto alle attività agricole locali o alle famiglie contadine.
Le conseguenze del degrado ambientale si ripercuotono inevitabilmente sulla società e sulle comunità locali costrette a vivere in un ambiente sottosviluppato in cui lo stato è presente solo militarmente. Se in Nigeria l’aspettativa di vita è di circa 52 anni, nella regione del Delta questa si abbassa di oltre 10 anni a causa dell’inquinamento e della tossicità di acqua e cibo che causano la diffusione di malattie respiratorie, cardiache e vascolari nonché un’altissima mortalità infantile. Nelle zone in cui mancano gli ospedali e le cliniche e si fa ancora utilizzo della medicina naturale, l’inquinamento ha distrutto gli orti in cui i guaritori coltivano le erbe officinali.
Un altro problema riguarda la quasi totale assenza di servizi e infrastrutture di base. Nei villaggi non ci sono elettricità, acqua potabile, ospedali o scuole, mentre l’emorragia di giovani verso le città non solo svuota i villaggi di manodopera, ma va ad accrescere il problema del sovrappopolamento dei centri urbani che non riescono a gestire questi flussi. Di conseguenza, moltissimi giovani vengono relegati in baraccopoli e slums dove la disoccupazione – che nella regione ammonta a quasi il 40% – e la frustrazione legata alle misere condizioni di vita li spinge a compiere atti criminali come spaccio, rapine e rapimenti. In tale situazione di disagio e alienamento personale si inseriscono facilmente culti e sette che spingono i giovani adepti verso la criminalità con la promessa di un futuro migliore.
La disoccupazione favorisce anche il mercato nero e la resistenza armata. Il fenomeno delle perdite di petrolio non è dovuto solamente alla corrosione e alla scarsa manutenzione delle tubature, ma anche al sabotaggio delle infrastrutture da parte di singoli contrabbandieri o gruppi locali che si danno al bunkering ovvero il furto di petrolio e il suo raffinamento tramite piccoli laboratori artigianali nascosti nelle foreste. All’inizio tali azioni erano volte al boicottaggio dell’industria petrolifera per colpire le entrate del governo, oggi invece chi compie questi sabotaggi lo fa per motivi di guadagno e talvolta di sopravvivenza economica.
Il governo ha così deciso di usare il pugno di ferro per stanare i contrabbandieri imponendo pene severissime per i furti di petrolio ricorrendo, se necessario, anche alla pena capitale per azioni etichettate come terroristiche e di destabilizzazione. Successivamente ha intensificato la propria presenza inviando direttamente l’esercito con l’incarico di scovare e distruggere le raffinerie illegali e arrestare indistintamente chiunque fosse coinvolto nel bunkering.
Sebbene l’esercito sia riuscito a smantellare decine di raffinerie e a recuperare centinaia di migliaia di litri di petrolio, gas e benzina, la popolazione non è ancora soddisfatta, soprattutto per quanto concerne le condizioni di vita: in molti hanno cercato una compensazione economica citando in giudizio la Shell e le altre compagnie petrolifere presso corti internazionali, tuttavia solo pochi sono riusciti ad ottenere un risarcimento e per farlo hanno dovuto lottare per anni in tribunale. Le comunità si sono quindi organizzate autonomamente per aiutare i cittadini del Delta a sostenere le spese legali, le spese mediche e a trovare giustizia di fronte a un vero e proprio wastelanding causato dal governo e dall’industria estrattiva.
Per quanto riguarda i danni ambientali, nonostante l’istituzione della Nigeria Oil Spill Monitor e il finanziamento della HYPREP, un’azienda nata nel 2011 per ripulire le acque del fiume,
gli sforzi da parte del governo federale non si sono dimostrati sufficienti. Gli interventi dell’HYPREP non riescono nemmeno ad arginare le fuoriuscite quotidiane, lasciando ancora una volta la popolazione ad affogare nel greggio.
Pur essendo fondamentale per l’economia della Nigeria ancora fortemente dipendente dall’estrazione di petrolio, le condizioni di vita della popolazione del Delta sono tra le peggiori della nazione. I nigeriani che vivono sulla foce del fiume si sono visti privati dei loro diritti ambientali, lavorativi e sanitari e subiscono le gravi conseguenze di un’attività economica dalla quale non traggono alcun beneficio concreto. Per questo motivo, l’instabilità nella regione è cresciuta negli anni e la negligenza del governo ha portato alla lotta interna tra i villaggi ma anche tra gruppi ribelli e forze governative e a pagarne le conseguenze è sempre la popolazione. Per ora l’unica risposta di Abuja è stata di tipo militare senza però alcuna proposta concreta per ridurre la disoccupazione, la povertà e il degrado ambientale che stanno alla base della criminalità nella regione.