Il 25 marzo è la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, del quale quest’anno ricorrono i 700 anni dalla morte. La Giornata, la cui data è riconosciuta dagli studiosi come inizio del viaggio nell’aldilà della Divina Commedia, è stata istituita lo scorso anno dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro Dario Franceschini. Il “Dantedì”, come si è scelto di chiamare questa giornata, è un’occasione non solo per celebrare la vita e l’opera del Sommo Poeta, ma anche per ragionare riguardo al valore e alle possibilità di esercitare soft power che il nostro Paese possiede grazie al suo immenso patrimonio culturale.
Ripercorrere l’opera dantesca ci consente quindi di poter guardare all’impatto che la figura del Poeta fiorentino ha significato per la nostra storia. Specialmente se partiamo dal fatto che Dante è considerato il padre della lingua italiana. Imparare una lingua non è esclusivamente da considerarsi come uno sforzo mnemonico o una semplice acquisizione di una nuova competenza. Avvicinarsi ad una nuova lingua significa anche che ci si sta avvicinando e interessando ad un nuovo mondo, vicino o lontano che sia. Decidere di imparare il tedesco o il francese significa intrinsecamente che ci si sta avvicinando ai mondi cui quelle lingue appartengono, e lo stesso fanno gli stranieri che si approcciano alla lingua italiana, avvicinandosi quindi al mondo italiano.
La lingua italiana esercita nei confronti degli stranieri una grande attrattiva, venendo considerata temporalmente la quarta o la quinta lingua più studiata al mondo, a seconda degli anni. Un’attrazione che deriva da più motivi. In una lista pubblicata dall’università di Princeton, si rileva in primo luogo che l’italiano è sonoro e bellissimo, ed è la lingua di riferimento per chi ama l’arte, la musica, l’architettura, l’opera, il cibo.
La nostra lingua è anche la più vicina al latino, e in Ordered Profusion (1973) di Thomas Finkenstaedt e Dieter Wolff – due accademici e linguisti tedeschi – fu pubblicata un’indagine condotta su quasi 80.000 parole del dizionario Shorter Oxford Dictionary che stimava che l’origine di quasi il 30% di queste parole fosse latina. Il tasso generale di parole inglesi derivanti dal latino è stimato al 60%.
Essendo quindi l’italiano la lingua più vicina al latino, impararlo è visto dagli anglosassoni come un aiuto nel parlare meglio l’inglese. Nelle università statunitensi le iscrizioni ai corsi di lingua italiana stanno infatti crescendo.
La capacità di una lingua di saper attrarre diventa quindi efficace strumento di soft power e la promozione della lingua nazionale è da sempre considerato un fattore di tipo politico-culturale. Joseph Nye, politologo e decano dell’università di Harvard, ha definito come soft power “il potere di seduzione che uno Stato esercita sugli altri”. Nella fattispecie, oltre al potere militare e quello economico, il peso di un Paese, in ambito internazionale, si misura anche dalla sua capacità di influenzare gli altri attraverso la comunicazione, l’immagine e la cultura.
Sotto questo profilo l’Italia parte da posizione avvantaggiata. La ricchezza del nostro patrimonio artistico, culturale e letterario, ha fatto di noi una superpotenza culturale sullo scenario internazionale, anche in assenza di (spesso) di una chiara strategia di promozione.
Negli ultimi anni però, la maggior parte dei Paesi che aspirano a giocare un ruolo sulla scena internazionale hanno alzato il livello del confronto, inaugurando una vera e propria corsa agli armamenti del Soft Power: non solo missili e portaerei, ma anche canali all-news, scuole di lingua, mostre d’arte e campagne online.
In paesi europei come Regno Unito (Cambridge Institute e British Council), Germania (Goethe Institut), Spagna (Instituto Cervantes), Francia (Alliance Français), Russia (Istituto Puskin) si è gradualmente radicata la convinzione della rilevanza della promozione linguistica nella propria politica estera. Sfruttare quindi la lingua come asset politico.
Degni di particolare nota sono gli sforzi della Cina, la quale – nell’ottica di un rafforzamento del proprio soft power nell’ottica di creare un Beijin consensus – sta infatti impiegando grandi risorse per l’apertura di nuovi Istituti Confucio in tutto il mondo. Lo Hanban (struttura governativa di Pechino per la promozione della lingua) stanzia infatti 100.000 dollari per ogni nuova apertura di un Istituto Confucio realizzata in partnership con un’università che la ospita, secondo un sistema che in termini manageriali potrebbe essere definito come una sorta di franchising.
Basta osservare che solo in Italia, degli ormai 104 istituti aperti in tutto il mondo, sono presenti ben 16 Istituti Confucio per comprendere la capillarità del sistema per la promozione della lingua cinese, chiaramente inserito in una strategia di rafforzamento del ruolo del paese non solo sul piano politico ma anche culturale.
Questo compito di diffusione della cultura italiana spetta da noi invece agli Istituti Italiani di Cultura e alle varie sedi sparse nel mondo della Società Dante Alighieri, che del Sommo Poeta porta il nome. L’ultimo indice sul soft power globale pubblicato da Brand Finance posiziona l’Italia al diciannovesimo posto, in discesa di alcune posizioni – anche a causa della pandemia.
Per il nostro Paese non si tratta solo di un problema in termini di influenza e di prestigio. La capacità di un Paese di proiettare all’esterno un’immagine positiva ha un impatto decisivo su almeno tre fronti economici di primaria importanza: l’export di beni e servizi, l’attrazione di investimenti diretti dall’estero e il turismo. Gli sforzi strategici verso un incremento del nostro soft power andrebbero quindi rafforzati e implementati in nome di un aumento della competitività e del prestigio italiano.
Damiano Mascioni,
Geopolitica.info