La serie di successi inanellati dal duo Erdoğan-Davutoğlu fino al 2011 sono stati espressione di un revisionismo di tipo incrementale espletato attraverso gli elementi del “soft power” e senza rinunciare in toto al paradigma filo-statunitense della politica estera turca. Parimenti il “gran rifiuto” del 2003 costituisce la prima frizione di un certo rilievo tra Ankara e Washington – benché capitali di ben altro peso per il blocco occidentale come Parigi e Berlino avessero detto no all’intervento militare contro Saddam – ed anticipa di qualche anno il sempre maggiore distacco tra le scelte erdoganiane e l’agenda internazionale americana. Bisogna comunque sottolineare che, seguendo pienamente l’impianto teorico-strategico di Davutoğlu, l’ascesa turca nel primo decennio del XXI secolo è stata favorita anche dall’atteggiamento bonario, quando non dall’appoggio palese, degli Stati Uniti d’America.
Trasformazione del revisionismo turco da incrementale a rivoluzionario
Impegnata in una sorta di manovra gattopardesca (cambiare tutto per lasciare tutto invariato) per la conservazione degli equilibri di potenza in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale attraverso gli strumenti del revisionismo, la Turchia erdoganiana si è trovata quasi spiazzata di fronte all’esplosione delle cosiddette primavere arabe del 2010-2012 ma ha contemporaneamente visto in quelle proteste capaci di far implodere regimi e gruppi di potere apparentemente consolidati nei Paesi vicini una opportunità per spingere il tasto sull’acceleratore revisionista. L’impegno politico e militare diretto della Turchia nella Guerra civile siriana al fianco dei ribelli ed in funzione anti-curda è stato sintomo della trasformazione del pensiero strategico della “Stratejik Derinlik” tendente ora ad imboccare la strada del revisionismo rivoluzionario visto anche il giro di vite autoritario di Erdogan in politica interna.
Le trasformazioni che la realpolitik aggressiva di Erdogan – che fino a quel momento sulla formazione del processo decisionale delle questioni di politica estera aveva influito poco o niente limitandosi a “raccogliere” suggerimenti e proposte di Davutoğlu e del suo entourage – ha imposto alla dottrina della “Profondità strategica” ha segnato anche la spaccatura definitiva con Davutoğlu portandolo prima alle dimissioni il 24 maggio 2016 e successivamente all’espulsione dall’AKP il 12 settembre 2019. Il realismo politico di Erdoğan, improntato sulla necessità di cogliere ogni opportunità derivante dalla manifestazione di crisi politico-militari regionali e dunque ad uno schietto revisionismo rivoluzionario dello status quo, si basa sulla ricerca spasmodica del massimo profitto per l’interesse nazionale mentre la forma originaria della “Profondità strategica” si basava sul mantenimento ad ogni costo di determinati equilibri, sulla ricerca della soluzione a lungo termine.
In relazione alla questione siriana Ahmet Davutoğlu ha creduto che il fattore deterrente dell’escalation bellica fosse rappresentato dalla minaccia d’intervento militare turco diretto pur nella speranza di non dover giocare questa carta. La presenza di soldati turchi in Siria è stata determinata dal rafforzamento dei curdi e dunque da un elemento dell’agenda politica interna di Ankara. Al contrario Erdoğan, quando nell’ottobre 2019 ha ordinato alle sue truppe di varcare il confine con la Siria e di installarsi nel nord del Paese scacciando sia le milizie curde che le forze governative di Assad, ha puntato tutto su un “obiettivo regionale” e cioè schiettamente legato alla politica estera di Ankara e non a quello che era stato sempre giudicato primariamente come un problema di ordine pubblico e sicurezza interna. Senza contare la politica decisamente ambigua di Ankara nei confronti dello Stato Islamico e di altre realtà dell’islam radicale presenti in Siria ed Iraq.
In sintesi, le dimissioni di Davutoğlu da primo ministro hanno assestato alla vecchia Stratejik Derinlik un duro colpo ma la teoria è stata mandata in soffitta esclusivamente con il sopravanzare della “Patria blu” e con una trasformazione del pensiero strategico turco più attento ora alla dimensione marittima rispetto a prima in una sorta di ritorno al passato kemalista.
La “Patria blu”: il ritorno al mare della Turchia
Si sbaglierebbe tuttavia a ritenere “Profondità strategica” e “Patria blu” due teorie strategiche a “compartimenti stagni” e slegate. Se la prima risponde ai dettami del neo-ottomanesimo inteso quale recupero del predominio turco sull’antico spazio imperiale della Sublime Porta, la seconda pur partendo da basi kemaliste sull’importanza di proteggere le acque turche poi vira inevitabilmente sulla ricostruzione della potenza navale nazionale prendendo a modello proprio l’Impero Ottomano. Entrambe le teorie rispondono anche alla necessità di fare della Turchia una “potenza energetica” in grado di essere autosufficiente e di sostenere i costi sempre crescenti d’una politica estera particolarmente ambiziosa.
Una delle principali riflessioni di Kemal Ataturk come leader del Movimento Nazionale Turco e comandante in capo dell’Esercito turco nel conflitto contro la Grecia (1919-1922) è stata quella relativa alle forze navali ottomane durante la Prima guerra mondiale: il fatto che i turchi fossero stati costretti a combattere contro le forze dell’Intesa nella penisola di Gallipoli era dovuto all’assenza di una “cultura navale” ad Istanbul e mai più in futuro la Turchia avrebbe dovuto preferire la “fleet in being” al “comando del mare”. Il piano d’ammodernamento della Marina Militare Turca iniziato nel 2002 risponde proprio a questo bisogno sentito di recuperare una dimensione marittima del Paese. Non a caso il principale teorico della “Patria blu”, il contrammiraglio in pensione Cem Gürdeniz, pur coniando l’espressione Mavi Vatan nel 2006, non ha esitato a retrodatare al 2002 lo sviluppo della nuova dottrina strategica della Turchia. Il controllo e la conquista del mare diventano perciò un obiettivo fondamentale per la prosecuzione del disegno geopolitico di Ankara ed i documenti strategici della Marina turca hanno ormai cancellato l’aggettivo “orientale” alla parola “Mediterraneo” ampliando la propria area d’operazioni all’intero bacino dell’ex Mare Nostrum. Ipotizzando una guerra convenzionale tra la Turchia ed un’altra potenza marittima che puntasse ad invadere l’Anatolia, la flotta turca cercherebbe lo scontro risolutivo nelle acque mediterranee senza rinchiudersi nel Mar Nero e difendendo da lontano i Dardanelli. La teoria di Ataturk è stata aggiornata al XXI secolo e risponde ai dettami della “Patria blu”. Termine questo che ha dato il nome ad un’imponente esercitazione militare svoltasi nel marzo dello scorso anno, così come Mavi Vatan è il titolo che campeggia sul giornale del Collegio di Guerra della Türk Deniz Kuvvetleri, la Marina Militare Turca, espressione che non ha solo fatto breccia tra gli strateghi ed i consiglieri politico-militari di Erdoğan ma anche nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica turca. Secondo Gürdeniz la dottrina della “Patria blu” è quella della “diplomazia delle trivelle e delle navi da guerra” e persegue “il ritorno della Turchia al mare, l’unione tra Anatolia e Mediterraneo orientale” per garantire “i propri diritti nel Mediterraneo”. La prova di forza a Cipro, la negoziazione della nuova ZEE turco-libica estesa a danno della Grecia, l’opposizione a qualunque negoziato greco-egiziano sui rispettivi confini marittimi, le tensioni turco-greche al largo di Kastellorizo (con esiti alterni), la “conquista” di Misurata e la presenza nel Corno d’Africa e nel Mar Nero sono tutti tasselli di un’unica grande strategia che punta a tirare fuori, nel più breve tempo possibile, la Turchia dalle “secche” della politica anatolica per inseguire il proprio destino marittimo.
La diplomazia delle navi da guerra e delle trivelle
Questa è la chiave di volta della continuità tra “Profondità strategica” e “Patria blu” con la seconda che è il correttivo marittimo di una dottrina prettamente tellurica. Per quanto Davutoğlu nel 2001 scrivendo il suo libro/manifesto abbia voluto svolgere il ruolo di “picconatore” dei paradigmi della politica estera turca della Guerra Fredda, in realtà egli non era comunque riuscito a svincolarsi dalla limitazione territoriale anatolica nella quale, con il Trattato di Sevres del 1920, le potenze vincitrici della Grande guerra avevano imbrigliato la Turchia. La dottrina di Gürdeniz e l’azione politico-militare dell’ammiraglio Cihat Yayci (il teorico dell’intervento militare turco in Libia e dell’accordo bilaterale con Tripoli sulla nuova ZEE) hanno dimostrato che la “profondità strategica” della Turchia è valida solo se accompagnata da una capillare presenza in mare di navi da guerra (appoggiate da basi sparse nell’hinterland mediterraneo) e di navi adibite alle trivellazioni. Se il nazionalismo kemalista – che è il milieu politico-culturale di riferimento di Gürdeniz, dello spodestato Yayci e di gran parte dei militari impegnati nella teorizzazione della “Patria blu” – ha avuto il merito di rinvigorire la politica navale turca, esso poggiava comunque sulla solida eredità storica (uno dei fattori della “politica di potenza” secondo Davutoğlu) della Donanma-yı Humâyûn (la Marina dell’Impero Ottomano) che, da ben prima della sua fondazione nel 1793 e fino alla battaglia di Sinope nel 1853 contro le squadre navali russe dell’ammiraglio Pavel Nakhimov, era stata una delle più importanti e temute marine militari del mondo per poi entrare in una fase di decadenza che la portò lungo l’arco temporale che va dalla Guerra di Crimea alla Guerra italo-turca a subire, rispettivamente contro i russi e gli italiani, una serie di pesanti sconfitte.
La rinnovata forza militare navale turca e l’estensione della sua capacità di proiezione nel Mediterraneo ed in alcuni punti strategici del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano sono due delle armi politiche e propagandistiche più affilate nelle mani di Erdoğan che, in momenti particolarmente acuti delle crisi nelle quali è stata coinvolta la Turchia, non ha esitato, sull’onda della sicurezza acquisita, ad utilizzare anche toni forti ai limiti della provocazione ad esempio con la Grecia nell’Egeo in questi giorni ma anche con i francesi nelle acque cipriote.
Il futuro prossimo della politica estera turca
Da un punto di vista schiettamente politico-militare, se pure Misurata fosse il punto massimo ove l’avanzata turca nel Mediterraneo si possa protendere – e qualche tentennamento intorno a Sirte lo lascia pensare – si tratterebbe comunque di un successo per la Turchia e di una sconfitta grave per alcune potenze rivali – dichiarate o meno – nell’area, su tutte l’Italia. Eppure più di qualche analista esperto di “cose turche” afferma che nel lungo periodo Ankara non possa sostenere i costi, in termini economici e politici, della Mavi Vatan a causa dei problemi interni legati alla gestione dell’emergenza Covid ma anche alla crescita esponenziale della spesa pubblica del 16% con un conseguente aumento a circa 6 miliardi del debito pubblico e ad una perdita di valore del 17% della lira turca rispetto al dollaro statunitense. I bassi tassi d’interesse sui prestiti, cavallo di battaglia della politica economica di Erdoğan, se da una parte stimolano gli investimenti di famiglie ed imprese, dall’altra causano un indebolimento radicale della valuta turca. Queste problematiche, acuite dallo scontro politico con i partiti d’opposizione, non rendono la vita facile ad Erdoğan e non è azzardato pensare che l’interventismo all’estero sia per il presidente più che altro uno strumento di “distrazione di massa” dai problemi interni del Paese.
Risulta invece più probabile che i fattori di difficoltà interna stiano spingendo la Turchia di Erdoğan ad adottare un atteggiamento aggressivo all’estero per ottenere, quanto più possibile, risorse e capitali con la consapevolezza che dopo la rapida crescita economica e militare degli anni precedenti, la “tigre anatolica” si stia lentamente ma inesorabilmente dirigendo verso uno stato di crisi che potrebbe causare anche la fine del sistema di potere del “sultano” Erdoğan e, sul fronte internazionale, una sempre più forte ostilità degli Stati Uniti d’America.