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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaDalla "Profondità strategica" alla "Patria blu": l'evoluzione del pensiero...

Dalla “Profondità strategica” alla “Patria blu”: l’evoluzione del pensiero strategico turco parte 1

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Il concetto di Mavi Vatan (Patria blu) che ha determinato un’inversione di tendenza nella politica estera turca e nell’interpretazione e definizione che gli strateghi di Erdoğan danno dell’hinterland di Ankara in questo inizio di decennio rappresenta contemporaneamente una cesura ed un meccanismo di continuità con la dottrina della Stratejik Derinlik (Profondità strategica) teorizzata dall’ex consigliere politico, ex ministro degli Esteri ed ex primo ministro Ahmet Davutoğlu.

Le linee guida della politica estera della Turchia dopo la Guerra Fredda sono state tracciate dalle pagine del libro “Stratejik Derinlik. Türkiye’ nin Uluslararasi Konumu” (Profondità Strategica. La Posizione Internazionale della Turchia) scritto dallo stesso Davutoğlu nel 2001, partivano da un assunto molto semplice: il crollo del blocco sovietico e la fine del bipolarismo avrebbero reso la Turchia una potenza di secondaria importanza sullo scenario internazionale se non ci si fosse sbrigati a ridefinire le proprie priorità con l’estero vicino e a recuperare il potenziale derivante dal passato imperiale ottomano.

Alla base della “Profondità strategica”: il sogno panturanico di Özal

Il decennio 1983-1993 – coincidente con la fase finale della Guerra Fredda, l’implosione dell’Unione Sovietica, gli albori dell’unipolarismo, l’invasione irachena del Kuwait e la crisi della Jugoslavia – fu segnato politicamente dalla presenza del liberal-conservatore Turgut Özal prima come capo del governo (1983-1989) e poi come capo dello stato (1989-1993) e quindi dal suo tentativo di dare alla Turchia il “giusto posto nel mondo” e trovarle una dimensione geopolitica consona alle potenzialità del Paese. Convinto atlantista, Özal fece partecipare truppe turche alla Prima guerra del Golfo nel 1991 sperando che gli Stati Uniti intuissero l’importanza di Ankara quale bastione occidentale in Medio Oriente. Contemporaneamente però Özal aveva compreso che, con la fine del socialismo reale, i paradigmi alla base della politica estera turca necessitassero di una riforma e che i legami storico-culturali-religiosi con i Paesi del Levante, del Caucaso, dell’Asia centrale e perfino dei Balcani (una vasta area compresa entro il vecchio spazio imperiale ottomano) potessero essere un utile “trampolino di lancio” per una strategia che vedesse nella Turchia un perno ed un punto di riferimento regionale.

Il sogno panturanico, che sembrava morto assieme ad Ismail Enver Pasha il 4 agosto del 1922 a Baldžuan (Repubblica Sovietica Popolare di Bukhara, odierno Uzbekistan) sotto i colpi delle mitragliatrici del Battaglione armeno dell’Armata Rossa, in realtà era sopravvissuto anche al kemaliano “isolazionismo anatolico” scorrendo come un sotterraneo fiume carsico attraverso le elaborazioni strategiche della Turchia moderna. Con la politica estera inaugurata da Turgut Özal il turanismo, nella sua versione panturca, tornò al centro dell’agenda governativa di Ankara ma in termini diversi rispetto a quelli prospettati dai “Giovani Turchi” ad inizio ‘900 o dai gruppi ultranazionalisti: per Özal la Turchia poteva tornare ad essere il punto di riferimento dei vari “popoli turchi” ex ottomani non brandendo il kilij ma attraverso strumenti di “soft power” come il comune credo islamico (nella particolare versione “moderata” ed istituzionale turca), l’origine etnica omogenea e le possibilità d’espansione e collaborazione economiche nate con la scomparsa del gigante russo-sovietico.

L’estrema fiducia riposta da Özal negli strumenti del multilateralismo e la “paura” di virare decisamente verso istanze revisioniste dello statu quo post-1991 impedirono alla Turchia di rispondere assertivamente alle trasformazioni in atto nello scenario internazionale; non si può negare tuttavia che le intuizioni del presidente Turgut Özal e dei suoi consiglieri abbiano aperto la strada non solo all’evoluzione contemporanea del turanismo ma anche alla “Profondità strategica” di Davutoğlu che è, in sostanza, un tentativo di “fare ordine” tra le brillanti ma confuse idee del secondo presidente più amato dai turchi dopo il “padre della patria” Mustafa Kemal Atatürk.

Per una nuova geopolitica turca: la “Profondità strategica” di Davutoğlu

Nell’analisi di Davutoğlu emergono chiaramente i limiti della politica estera turca degli anni ’90 del secolo scorso quando la classe dirigente considerava la Turchia una “media potenza regionale” e non teneva conto del posizionamento geografico estremamente vantaggioso del Paese e della sua eredità politico-culturale di tipo imperiale, tutti fattori che, secondo l’allora professore all’Università di Baykent (Istanbul), ne facevano “un attore di prima grandezza nel panorama internazionale”.

In particolare, il fattore geografico risulta essere fondamentale per la teoria di Davutoğlu poiché la Turchia si trova esattamente al centro degli assi nord-sud ed ovest-est, direttrici di contatto e scambio ma anche di scontro e conflitto che se da una parte costituiscono un naturale rischio per la potenza che si trova nel mezzo, dall’altra sono un’opportunità per estendere il perimetro della “sfera creativa” e dunque autonoma della propria politica estera rispetto al blocco occidentale.

Mentre per Özal l’appartenenza della Turchia al campo americano-occidentale costituiva uno strumento di salvaguardia ed un “moltiplicatore di potenza”, per Davutoğlu – che comunque non mette in discussione ruolo e funzioni di Ankara nella NATO – essa rappresenta un fattore limitante per le ambizioni turche. In particolare il ruolo di “poliziotto per procura” che la Turchia ha rivestito durante la Guerra Fredda e nel periodo d’oro dell’unipolarismo avrebbe impedito al Paese di ricoprire il naturale ruolo di mediazione dei conflitti – e quindi di ricavarne il profitto in termini politici – nel suo “estero vicino” con specifici riferimenti al golpe filogreco di Cipro (1974), alla Guerra iraniano-irachena (1980-1988), alla Prima guerra del Golfo, alla Guerra del Nagorno Karabakh tra Armenia ed Azerbaigian (1988-1994) e alla prima fase delle guerre jugoslave (1991-1995).

La mancata “riscossione dei dividendi” per la Turchia è stata frutto, secondo l’ex primo ministro Davutoğlu, dell’assenza di una “cultura imperiale” determinata dalla liquidazione kemalista del passato ottomano. Da qui emerge la dura critica che il musulmano conservatore Davutoğlu rivolge a Kemal Ataturk in primis ma in generale a tutti i decisori politici e militari kemalisti: la colpa del nazionalismo laico kemalista sarebbe stata quella di aver creduto che lo “spazio imperiale” turco fosse scomparso a seguito del crollo dell’Impero Ottomano nel 1922 e che quindi la Turchia si fosse “ristretta” alla sola Anatolia. Al contrario, i popoli “turcici” un tempo sottomessi alla Sublime Porta e coinvolti nelle guerre degli anni ’80 e ’90 avevano guardato ad Ankara per ottenere protezione sperando anche in una sua mediazione per la risoluzione dei conflitti. Quelli erano segnali dell’esistenza di uno stato d’animo “ottomano” prima ancora che di una ideologia compiuta presente più nell’estero vicino turco che nella Turchia stessa. L’occupazione militare di Cipro Nord nel 1974 non è stata un esempio di “proiezione imperiale” ma una semplice reazione in chiave difensiva da parte di Ankara, non una risposta affermativa alle richieste di sostegno dei musulmani turcofoni dell’isola ma la paura del tradizionale nemico greco.

Se nel corso della Guerra Fredda sarebbe stato impossibile portare avanti una politica estera autonoma, con l’unipolarismo ed a maggior ragione nella fase d’arretramento della superpotenza statunitense la Turchia ha l’obbligo non solo di rifondare la propria identità ma anche la propria cultura politica di riferimento per poter definire con precisione i confini della propria sfera d’influenza, cioè del proprio hinterland entro il quale instaurare una sorta di controllo egemonico. La rifondazione della geopolitica turca su basi nuove è il punto di contatto tra l’impianto teorico del professor Davutoğlu e il pensiero di Recep Tayyip Erdoğan, dunque di due fattori della “politica di potenza” come la mentalità e la pianificazione strategica con il decisionismo politico. 

La volontà politica e la capacità di progettare un nuovo “spazio vitale” per la Turchia rispondono appieno alla necessità percepita da Davutoğlu di optare per una azione internazionale dichiaratamente “revisionista” e dunque lontana dai vecchi propositi ozaliani (per non dire kemalisti) di mantenimento dello status quo, pena il rischio d’essere travolti dal nuovo corso delle relazioni internazionali imposto dal multipolarismo emerso nei primi anni 2000. La Turchia dovrebbe procedere “riorganizzando in forma alternativa i rapporti con i centri di potenza e creando un hinterland fondato sui rapporti culturali, economici e politici strutturalmente consolidati” con i Paesi ex ottomani ma esiste un vulnus causato dal posizionamento filo-occidentale di Ankara nel corso della Guerra Fredda: alcune scelte politico-strategiche determinate dal timore del vicino sovietico, con uno spostamento su posizioni filo-statunitensi e filo-israeliane, hanno causato frizioni con i Paesi arabi, per non parlare dell’ostilità latente degli Stati balcanici nei confronti della Turchia, in particolare la crisi conclamata con la Bulgaria e perfino la guerra con la Grecia. In altre parole, la ricerca costante di stabilità regionale che la Turchia ha creduto di poter garantire attraverso trattati ed accordi ha causato più danni che benefici; ecco perché il XXI secolo impone un cambiamento di rotta per la politica estera turca che, senza abbandonare la tradizionale posizione filo-occidentale, sia capace di ricalibrare interessi ed area d’influenza seguendo le frastagliate frontiere dell’antico Impero Ottomano. Riequilibrare lo sbilanciamento ad Ovest della bussola diplomatica mostrando più attenzione per le istanze e le necessità dei Paesi vicini, consentirebbe alla Turchia di ricoprire quel ruolo di mediazione che il centro esercita sulle periferie cui Özal aveva ambito e che ora con Erdoğan si potrebbe recitare.

Il neo-ottomanesimo agli albori della presidenza Erdoğan

L’essenza del neo-ottomanesimo è legata al mantenimento della “pax ottomana” nel Levante e nel Caucaso, obiettivo che però la Turchia di Erdoğan non è riuscita a raggiungere, anzi tutt’altro, proprio nella fase in cui alla guida della sua politica estera era stato posto il suo teorico Ahmet Davutoğlu. Dal 2005 al 2011 la Stratejik Derinlik ha ottenuto i suoi più brillanti successi con il nuovo corso delle relazioni bilaterali con l’Iraq, il rafforzamento dei rapporti commerciali con l’Iran, la normalizzazione dei rapporti con la Siria fino ad arrivare alla firma di accordi per la cooperazione militare ed il libero scambio, la firma della dichiarazione tripartita Turchia-Israele-Siria per il rilancio del processo di pace in Palestina, il rafforzamento dei rapporti con le vecchie province ottomane di Albania, Bosnia, Kosovo e Macedonia, nonché la mediazione tra Serbia e Bosnia. Anche sul fronte della cooperazione infrastrutturale e della politica energetica la Turchia della “dottrina Davutoğlu” ha ottenuto importanti successi con la firma dell’accordo per il progetto della linea ferroviaria Baku-Tblisi-Kars (operativa dal 2017) e l’entrata in funzione (2007) a pieno regime dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e del gasdotto Baku-Tblisi-Erzerum. 

Senza contare che è stato proprio nel quinquennio 2005-2010 che la Turchia è tornata a considerare l’Africa come un terreno fertile per l’espansione delle proprie relazioni diplomatiche ed economiche dopo il lungo periodo di ripiegamento (a partire dagli anni ’80 del XIX secolo) e poi di assenza totale dalle vicende del Continente nero seguita alle crisi d’Oriente ed alla scomparsa della Sublime Porta. A partire dal 2005, eletto dai turchi quale “anno dell’Africa”, e fino al 2008 vi è stato un crescendo di accordi ed investimenti di Ankara che hanno ottenuto la loro consacrazione con la nomina della Turchia a “membro osservatore” dell’Unione Africana ed il suo ingresso nella Banca Africana dello Sviluppo. Il soft power turco in Africa si alimenta con le ingenti risorse destinate agli aiuti umanitari che hanno consentito ad Ankara di essere il quarto contributore mondiale in opere di cooperazione allo sviluppo e anche di esercitare una sempre più massiccia influenza in regioni strategiche come il Corno d’Africa.

L’iperattivismo politico-diplomatico della Turchia tra il 2005 e il 2011 è stato favorito dalle dinamiche politiche interne di qualche anno prima con il nuovo corso liberale inaugurato da Erdoğan al suo primo mandato ma sostenuto anche da congiunture economiche che vedevano il Paese crescere a ritmi vertiginosi, quasi allo stesso livello della Cina. Le riforme attuate e la diffusione d’un sistema economico di stampo liberal-capitalista, nonché una visione moderata e “laica” dell’Islam, avevano attirato la benevola attenzione sia dei tradizionali alleati occidentali della Turchia che dei Paesi dell’hinterland “neo-ottomano” rinnovando la centralità del fulcro del vecchio impero. Il rifiuto turco ad intervenire militarmente al fianco di Stati Uniti e Gran Bretagna contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 ed il conseguente credito che Erdoğan ottenne in Francia e Germania – principali potenze “pacifiste” – rappresentarono la prima flebile frattura nel rapporto con Washington ma, allo stesso tempo, avvicinarono ulteriormente la Turchia ai Paesi mediorientali che avevano considerato come un sopruso americano l’attacco contro gli iracheni.

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