L’11 settembre resta, ancora oggi, un crocevia della storia politica dell’intero Occidente: le conseguenze degli attacchi del 2001 hanno rimodellato il rapporto degli Stati Uniti con il Medio Oriente, e oltre 3.000 truppe americane e della NATO sono cadute in combattimento in Afghanistan. Il coinvolgimento degli USA e dei suoi partner nella Guerra al Terrore ha portato cambiamenti radicali nel modo in cui gli Stati utilizzano risorse e tecnologie per rispondere alle minacce. Ora che l’Afghanistan è caduto di nuovo in mano ai talebani e il pericolo posto dallo Stato Islamico non sembra essere del tutto cessato, la minaccia del terrorismo globale sembra essere preoccupante come o peggio di quanto non fosse vent’anni fa. Ne abbiamo parlato con Alberto Simoni, Caporedattore Esteri de La Stampa e curatore della newsletter Metternich.
A distanza di vent’anni dagli attacchi dell’11 settembre, sembra oggi possibile esprimere un giudizio storico sulla “guerra globale al terrore” lanciata dall’allora Presidente Bush Jr. ed ereditata dai suoi tre successori. Gli Stati Uniti si sono ritirati dall’’Afghanistan, hanno ridotto significativamente la loro presenza militare in Iraq e mantengono solo un piccolo contingente di truppe in Siria. Allo stesso tempo, le operazioni di anti-terrorismo sembrano aumentare in quantità e qualità in Africa, piuttosto che in Medio Oriente. Qual è la sua valutazione? Il pericolo jihadista è lo stesso di vent’anni fa o si è evoluto nel tempo?
Per comprendere appieno il senso della guerra al terrorismo lanciata dall’Amministrazione Bush nel 2001 e quindi darne un giudizio bisogna ricordare che l’11 settembre non fu solo un attentato ma un atto di guerra contro gli Stati Uniti portato da un’entità non statale. È un salto qualitativo che ha imposto un cambio di paradigma strategico a Bush. Non si colpisce più solo il terrorismo, per vincere bisogna cambiare le condizioni nelle quali il terrorismo è fiorito, godendo di porti sicuri, sponsor e protezioni. È una vera rivoluzione strategica che trova nella Dottrina sulla sicurezza nazionale del 2002 le basi teoretiche: come i “preemptive strikes” e la lotta agli stati sponsor del terrore. Dire che l’approccio di Bush è stato vincente è fuorviante, ma sicuramente adattare l’America alle nuove sfide cambiandone la “posture” in materia di sicurezza e difesa, è stato fondamentale per impedire nuovi attacchi e condurre operazioni anti-terrorismo di altissimo profilo. Di questa rivoluzione sia Obama sia Trump hanno beneficiato. Il terrorismo è cambiato, non è quello di vent’anni fa e le modalità di azione di gruppi come Daesh ne sono l’esempio: il ricorso ai lupi solitari, il reclutamento sul Web, i micro target scelti rendono ancora più complesso contrastare questo pericolo. Il “pregio” della risposta all’11 settembre sta nell’aver reso evidente a tutti che l’Occidente – che lo voglia o meno – si trova coinvolto in una never ending war. Se non da vincere, almeno da non perdere.
Il crollo del governo afghano e la ritirata da Kabul rappresentano, al momento, la più grande crisi di politica affrontata dalla presidenza Biden. Quattro amministrazioni condividono la responsabilità di questa débâcle, ma sarà quella di Biden a rappresentarne il volto. Il Presidente democratico ha affermato, tuttavia, che l’obiettivo degli USA in Afghanistan era quello di estirpare al-Qaeda e non quello di “creare una democrazia unificata e centralizzata”, negando ogni obiettivo di state-building. Alla luce di questa narrazione risulta difficile comprendere le ragioni del protrarsi della missione in Afghanistan per un decennio, anche dopo l’uccisione di Bin Laden nel 2011, e dell’investimento di miliardi di dollari per addestrare le forze di sicurezza afghane. Le chiedo, qual è stata la strategia, o le strategie, degli Stati Uniti in questi vent’anni di guerra?
Washington ha alternato diversi approcci in questi anni. Anzitutto ha sposato una necessaria dottrina di state-building. Necessaria perché una volta rovesciati governi – quello dei taleban e la dittatura di Saddam Hussein – non poteva per ragioni di sicurezza uscire di scena rapidamente. L’errore statunitense è stato però quello di non capire appieno la cultura e il contesto in cui gli Usa si erano immersi. Gli afghani – ed è solo un esempio – nei villaggi han sempre preferito i loro tribunali basati sul diritto consuetudinario e sulla sharia a quelli da “rule of law” e habeas corpus americano. Eppure, Washington ha tirato dritto spendendo milioni di dollari per imporre norme giuridiche e norme processuali su canoni americani. Legittimo forse, efficace assolutamente no. Nel frattempo, l’addestramento di un esercito nazionale si è rivelato non sempre un successo. In Afghanistan si è squagliato dinanzi ai taleban, in Iraq ha avuto migliori esiti. Washington in realtà è rimasta imbrigliata in situazioni dalle quali avrebbe voluto uscire prima. Avendo tardato, lo state-building è diventato quasi l’unica ragione di presenza Usa in Iraq e Afghanistan facendo dimenticare le origini e il senso della presenza in quei teatri bellici. Tardiva quindi, ma corretta la scelta di Biden.
In questi giorni, una folta schiera di osservatori invoca la “teoria dei vuoti” paventando la possibilità che alcuni tra i più acerrimi rivali degli Stati Uniti – Cina e Russia in testa – possano includere l’Afghanistan nella loro sfera di influenza. È davvero così scontata questa dinamica e pensa che altri Paesi possano trasformare quello che è stato un buco nero per la politica estera americana e occidentale in un elemento di forza della loro politica di potenza?
Gestire l’Afghanistan è complicato. Britannici, russi e ora americani hanno perso la battaglia per il controllo di quel Paese. Siamo sicuri che cinesi e russi siano così convinti di colmare il vuoto lasciato dagli Usa? Siamo sicuri che essi bramino la “gestione” di un Paese capace di tornare 20 anni dopo al punto di partenza – inteso come chi lo governa, ossia i taleban? Pechino ha aspirazioni economiche, punta ai minerali e terre rare di cui l’Afghanistan è ricchissimo, Putin vuole avere un ruolo per evitare la destabilizzazione regionale. Ma accettare di entrare in Afghanistan solo per sostituire gli Usa non credo sia nel loro interesse. Entrambi però possono contare su importanti alleati regionali con i quali ragionare e spartirsi zone di influenza e business. L’Afghanistan resta uno snodo chiave in Asia, tuttavia Washington – parola di Biden – ha deciso di uscirne per potersi concentrare sulle altre sfide, la Cina in primis. Non credo proprio porterà il confronto con Pechino sull’Hindu-Kush né gli mancheranno le polveri di Kabul: i teatri di battaglia nel Pacifico, nella sicurezza digitale, nel commercio sono ben più importanti. E Washington ha lasciato Kabul proprio per dedicarsi a queste nuove sfide. Se le vincerà sarà un’altra questione.