Per decenni, nell’immaginario collettivo, la ricchezza e l’influenza saudite e degli altri paesi del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) sono state quasi unicamente associate alla produzione di greggio e alla sua esportazione. Non sorprende, dunque, che ci si sia spesso riferiti al regno arabo con il termine “petromonarchia” o “rentier State”. Petrolio a parte, Riyadh ha sempre esercitato un rilevante soft power, in quanto culla della civiltà islamica e custode delle città sante di Mecca e Medina, ambite mete di pellegrinaggio per milioni di musulmani in tutto il mondo. A differenza dei suoi vicini, il paese non ha mai incoraggiato il turismo, rilasciando esclusivamente visti per adempiere ai rituali del Hajj e della Umrah (rispettivamente, il pellegrinaggio maggiore e minore prescritti ai fedeli dell’Islam) e di lavoro. La famiglia reale ha da sempre promosso un connubio fra tradizione e modernità, mantenendo ottime relazioni con i paesi occidentali (in primis Stati Uniti e Regno Unito) e garantendo un tenore di vita elevato ai propri cittadini e residenti. Al tempo stesso, però, le libertà individuali e il coinvolgimento del popolo nelle decisioni politiche apparivano alquanto limitate e la vita quotidiana nel Regno era scandita rigorosamente dai dettami della Shari’a (il corpus del diritto islamico), la cui osservanza era garantita dalla Mutawa’a, (il termine colloquiale riferito alla polizia religiosa). Tuttavia, negli ultimi anni, l’Arabia Saudita sembra aver avviato un graduale ma rapido processo di cambiamento sia in politica interna che estera che, una volta terminato, potrebbe rivoluzionare gli equilibri regionali e, addirittura, globali. Il recente invito formale di entrare a far parte del gruppo BRICS ne è una eloquente dimostrazione.
La svolta saudita ha avuto inizio nel 2017, quando re Salman ha promosso suo figlio Mohammed al ruolo di principe ereditario, dopo averlo nominato ministro della Difesa due anni prima. L’ascesa di Mohammed bin Salman (meglio noto con l’acronimo MbS) è stata caratterizzata dalla presentazione di Saudi Vision 2030, un’ampia agenda di governo mirante a diversificare l’economia del paese. Dal punto di vista sociale, sono state introdotte numerose riforme, come la concessione del diritto di guida alle donne (di fatto vietato fino al 2019) e l’apertura di cinema e teatri, sfidando i verdetti della polizia religiosa e riducendo i poteri della stessa. Sul piano della politica estera, dunque, l’erede al trono ha dimostrato sin da subito di voler contrastare con fermezza l’arcinemico iraniano, il principale alleato dei ribelli Houthi yemeniti (bombardati dalla coalizione arabo-sunnita a guida saudita) e la Fratellanza Musulmana (decisione che ha portato a un deterioramento delle relazioni con la Turchia e all’embargo nei confronti del Qatar, durato circa sette anni) e, al tempo stesso, mantenere saldi i rapporti con gli alleati vicini e i Partner occidentali (in particolare Emirati Arabi Uniti, Egitto e Stati Uniti). Tuttavia, non sono mancate le critiche di ONG e governi occidentali riguardanti la scarsa tutela dei diritti umani, in particolare la libertà di espressione e di rappresentanza politica. A tal riguardo, emblematico è il caso di Jamal Khashoggi, il noto giornalista dissidente scomparso all’interno del consolato saudita di Istanbul nel 2018. Pur avendo da sempre negato ogni diretta implicazione, Riyadh ha riconosciuto in parte la propria responsabilità dell’atto criminale condannando formalmente due uomini vicini alle istituzioni (Saud al Qahtani e Mohammad al Asiri). L’ombra dell’omicidio Khashoggi ha avuto delle notevoli ripercussioni negative sull’immagine del Regno, compromettendo anche l’esito della seconda edizione (23-25 ottobre 2018) della Future Investment Initiative Conference, il forum economico internazionale di Riyadh soprannominato “la Davos del deserto”, destinato a promuovere la nuova trasformazione economica del paese, dove si registrarono numerose defezioni di esponenti di spicco della finanza e della politica globale. In ogni caso, gli obiettivi di Vision 2030 non sembrano essersi arrestati, specialmente in seguito allo scoppio della pandemia da Covid 19 e della guerra in Ucraina.
The Line – NEOM
In un mondo proiettato verso l’innovazione tecnologica e la sostenibilità ambientale, anche il maggior esportatore mondiale di petrolio ha deciso di investire nelle cosiddette “smart cities”. Per la fine del 2030 sono previsti lavori di ammodernamento che interesseranno Riyadh e Jeddah, dotando le due metropoli di un sistema di metropolitane e autobus all’avanguardia, mentre le città sante hanno già visto il completamento di un treno ad alta velocità che permetterà a visitatori e residenti di spostarsi con grande rapidità e adempiere ai riti del pellegrinaggio anche nell’arco di una sola giornata. Ma il governo saudita sembra essersi spinto oltre: creare la più grande città intelligente del pianeta direttamente dal deserto. Si tratta del tanto ambizioso quanto impegnativo progetto di Neom, il cui nome è la fusione del greco “neos” e dell’arabo “mustaqbal” (rispettivamente, “nuovo” e “futuro”). Il terreno su cui sorgerà la nuova metropoli è un’area desertico-montuosa di ben 26.500 km2 situata nella provincia di Tabuk, a nord-ovest del paese, al confine con la Giordania e affacciata sul Mar Rosso. Al suo interno sono previsti complessi industriali flottanti, resort turistici di lusso, un enorme aeroporto internazionale e una suggestiva città lineare lunga 170 km, The Line. La città nella città è pensata per essere completamente ecosostenibile, priva di automobili e carreggiate. I suoi attesi 9 milioni di abitanti dovrebbero avere accesso ai servizi essenziali senza dipendere da alcun mezzo di locomozione, eccezion fatta per un treno ad alta velocità capace di percorrere gli estremi dell’agglomerato in soli 20 minuti. Per ribadire l’amicizia con l’Egitto (il quale ha già ceduto a Riyadh le due isole turistiche di Tiran e Sanafir), è prevista anche la realizzazione di un ponte che colleghi le due sponde del Mar Rosso. Il tutto avrà un costo stimato di 500 miliardi di dollari americani.
Il turismo saudita fra tradizione e modernità
In termini di risonanza mediatica, lo sviluppo del settore turistico è, senza dubbio, uno degli obiettivi di maggiore impatto di Vision 2030. Si tratta di un’iniziativa pioneristica in un paese dove, per molti anni, i turisti non sono stati ammessi e si è guardato con sospetto ai pochi visitatori stranieri. Tuttavia, la trasformazione dell’economia saudita passa anche per i tour operator. Particolare rilievo è stato dato al patrimonio culturale e alla storia del Regno, di cui Al Ula sembra essere la sintesi perfetta. La piccola città nordoccidentale sorge a pochi chilometri da un antico complesso di suggestive formazioni rocciose nel mezzo del deserto, alcune delle quali custodiscono antiche rovine nabatee scolpite al proprio interno. È il caso di Madaen Saleh, nota ai più come la “Petra d’Arabia” (nonché primo patrimonio UNESCO del paese), trascurata per decenni dalle autorità saudite, in quanto testimonianza del passato preislamico della Jahiliya (ignoranza), inviso all’élite religiosa più conservatrice. Recentemente, l’oasi desertica è stata scelta da MbS come cornice di vari eventi di portata internazionale (non ultimo il summit del CCG nel 2021 in cui è avvenuta la riconciliazione formale con il Qatar) ed è divenuta persino un set cinematografico, come per “Operazione Kandahar”, film diretto da Ric Roman Waugh e finanziato dal gruppo saudita MBC. A fare da contrappeso alla storia secolare di Al Ula vi sarebbe la grande scommessa di Expo 2030 a Riyadh. In attesa della votazione che si terrà il prossimo 28 novembre a Parigi in occasione dell’assemblea generale degli Stati membri del Bureau International des Expositions, la candidatura presentata dal governo saudita per ospitare l’esposizione universale parrebbe un traguardo quasi raggiunto. Durante una recente visita ufficiale del principe ereditario in Francia, il presidente Macron ha espresso la sua intenzione di sostenere Riyadh. L’annuncio, naturalmente, non è stato accolto positivamente oltralpe, essendo Roma un’altra candidata insieme alla sudcoreana Busan. Nonostante la premier Meloni sia volata prontamente a Parigi per tentare di promuovere la capitale d’Italia, va ricordato che l’Eliseo ha stretto importanti accordi finanziari con il Regno (come la vendita di aerei Airbus alla compagnia lowcost saudita Flynas o la produzione congiunta di elicotteri destinati alla difesa di entrambi i paesi) e, in parte, ha interessi condivisi in Africa e Medio Oriente (che divergono sensibilmente da quelli italiani). In ogni caso, Roma potrebbe contare sull’appoggio statunitense che il presidente Biden ha già assicurato. Del resto, l’attuale amministrazione democratica (a differenza della precedente repubblicana) non ha mai nascosto un certo scetticismo nei confronti di Riyadh e, più in generale, dei regimi definiti “illiberali”.
Lo sport
Ancor prima della clamorosa vittoria ai Mondiali del Qatar, l’Ente saudita del turismo ha scelto uno sponsor d’eccezione per valorizzare il proprio patrimonio culturale: il celebre attaccante argentino Leo Messi. Non è, dunque, un caso se fra tante celebrità sia stato selezionato proprio un calciatore. Oltre ad essere lo sport più popolare nel paese e nel mondo, il calcio è ormai divenuto una solida fonte di investimenti e un influente strumento geopolitico. Non essendo riuscito a ingaggiare Messi, il Campionato saudita ha ottenuto uno straordinario balzo di visibilità dopo l’acquisto di Cristiano Ronaldo da parte dell’Al-Nassr, squadra di Riyadh. L’obiettivo sarebbe quello di attirare i migliori giocatori delle squadre europee per rendere più competitive quelle saudite e, al tempo stesso, promuovere l’immagine del paese a livello mondiale. Fuori dal campo, Cr7 il fuoriclasse portoghese si è fatto spesso immortalare dai fan mentre indossava il tradizionale thobe bianco a spasso in un centro commerciale o gustando il tipico caffè arabo al cardamomo, quasi a dimostrare la sua felicità di vivere in Arabia Saudita. Nonostante nel paese siano ancora formalmente vietati “atti di propaganda” di religioni diverse dall’Islam e la convivenza fuori dal matrimonio, Ronaldo è riuscito a portare con sé la sua compagna e non ha nascosto la sua fede cristiana, segnandosi la croce durante una partita. Altre trattative andate a buon fine riguardano il brasiliano Neymar, il franco-maghrebino Karim Benzima e, non ultimo, l’ex CT italiano Roberto Mancini, il quale ha accettato di allenare la nazionale saudita firmando un contratto di circa 25 milioni di euro all’anno per quattro anni (per Ronaldo sono stati staccati assegni con il doppio della cifra). L’ultimo grande acquisto sarebbe stato quello dell’egiziano Mohammed Salah che, tuttavia, ha rifiutato la stratosferica offerta della Al-Ittihad (660 milioni di euro per tre stagioni) e ha rinnovato fino al 2025 il contratto con il Liverpool. Nel 2018, il Paese ha anche firmato un accordo con la Lega Serie A italiana per ospitare quattro finali in quattro anni (fra Jeddah e Riyadh). Più recentemente, anche l’allenatore dell’AS Roma, José Mourinho, si è detto disposto a lavorare in Arabia Saudita, una volta scaduto il contratto italiano. Non va dimenticato che le sue dichiarazioni vengono pochi giorni dopo l’annuncio ufficiale di una partnership biennale fra la squadra capitolina e il Riyadh Season, uno dei principali festival di sport e intrattenimento legati a Saudi Vision 2030. Secondo alcuni analisti, la mossa potrebbe celare un accordo per scalzare definitivamente Roma dalla candidatura all’Expo. Calcio a parte, l’Arabia Saudita sta dimostrando interesse anche per altri sport, come la boxe, il golf e il tennis. Al pari di Wimbledon, i sauditi hanno lanciato nel 2019 la Diriyah Tennis Cup, finanziata dalla compagnia petrolifera nazionale Aramco. Vi sarebbero, inoltre, delle prospettive future di giocare la finale del WTA (torneo femminile) nel paese del Golfo, ma alcune giocatrici hanno espresso dei dubbi in merito. Non ultimo, va ricordato che, al pari dei vicini Emirati, Qatar e Bahrein, l’Arabia Saudita ha inaugurato il proprio Circuito di Formula 1 a Jeddah, nel 2021. Naturalmente, il tradizionale champagne della premiazione è stato sostituito con una bevanda analcolica aromatizzata all’acqua di rose.
La diplomazia
La crisi pandemica e la guerra in Ucraina sono due eventi che hanno inevitabilmente portato a un riassetto degli equilibri globali. Durante il periodo del lockdown, l’Arabia Saudita, come il resto del mondo, ha dovuto chiudere i propri confini per evitare il proliferare dei contagi. Ciò ha significato rinunciare a ingenti introiti economici, specialmente derivanti dal tradizionale pellegrinaggio e dal neonato turismo. Sebbene vi fossero dei colloqui segreti da tempo, per alcuni paesi del Golfo la pandemia sembra aver agito da catalizzatore per i cosiddetti “Accordi di Abramo”, ovvero il reciproco riconoscimento e l’instaurazione di relazioni diplomatiche e commerciali ufficiali con Israele. È il caso degli Emirati Arabi e del Bahrein, solidi alleati di Riyadh, i quali, nel 2020, hanno siglato gli storici accordi con lo Stato ebraico alla Casa Bianca, sotto gli occhi dell’allora presidente Trump. Dati i rapporti amichevoli fra l’ex presidente USA e il principe ereditario, Washington sperava di coinvolgere il più grande alleato strategico del Medio Oriente in quella che sembrava la svolta del secolo. Ciò veniva dato per scontato da molti analisti, vista l’inimicizia in comune di Riyadh e Tel Aviv nei confronti di Teheran, nonostante il Regno si sia rifiutato di riconoscere Israele prima che venga garantito uno Stato pienamente indipendente ai palestinesi. In tal senso, sono stati lanciati numerosi segnali di apertura nei confronti dello Stato ebraico, soprattutto dopo le ultime dichiarazioni del principe ereditario, pronunciate durante un’intervista esclusiva concessa all’emittente statunitense “Fox News” (tradizionalmente vicina al Partito Repubblicano). Tuttavia, il recente clima di alta tensione creatosi dopo l’attacco di Hamas in territorio israeliano e la dura risposta del governo Netanyahu, l’Arabia Saudita ha ufficialmente sospeso i colloqui.
Il 22 febbraio del 2022, il presidente russo Putin ha invaso l’Ucraina, cogliendo di sorpresa la comunità Internazionale che sembrava non prendere sul serio le sue minacce. Stati Uniti e paesi membri dell’Unione Europea e della NATO hanno subito offerto il proprio sostegno a Kiev e condannato l’aggressione. Il fronte occidentale si è ritrovato compatto nell’imporre dure sanzioni a Mosca e limitare sensibilmente i commerci, specialmente riguardanti l’approvvigionamento energetico. Pur condannando l’invasione, l’Arabia Saudita e i Paesi del CCG non hanno mai avuto intenzione di boicottare la Russia. Al contrario, si è assistito a un consolidamento delle relazioni fra Mosca e Riyadh, interpretato quasi come un segnale di distacco da Washington. La nuova linea americana voluta da Biden si è posta l’obiettivo di promuovere i valori di libertà e democrazia nel mondo e di isolare i regimi più autoritari (anche fra gli alleati storici). Non c’è da stupirsi, dunque, se le monarchie assolute del Golfo si sentono più attratte verso partner meno esigenti come Russia e Cina. Anche la Turchia, il cui presidente è spesso accusato di derive autoritarie dagli altri membri della NATO, non fa eccezione. I rapporti fra Ankara e la corona saudita non sono mai stati idilliaci, ma dopo l’omicidio Khashoggi erano giunti ai minimi storici. Eppure, lo scorso luglio, Erdogan è stato ricevuto a Riyadh con tutti gli onori da MbS, ponendo fine a un contenzioso che durava da anni. Ma la svolta più inaspettata è stata senza dubbio un’altra: la piena riconciliazione con Teheran. Con la mediazione di Pechino, i due storici rivali hanno ripristinato le relazioni diplomatiche da aprile, con possibili conseguenze sui lunghi e dolorosi conflitti in Yemen e Siria, ma anche nei turbolenti scenari iracheno e libanese, dove le contrapposizioni fra sunniti e sciiti assumono da decenni dei contorni di particolare tensione. Ma gli sforzi diplomatici di Riyadh non sembrano più limitati al solo Medio Oriente. Dopo il successo della mediazione per favorire il rilascio di dieci prigionieri stranieri detenuti in Russia, il principe ereditario ha convocato un summit internazionale a Jeddah, ad agosto del 2023, invitando solo il presidente ucraino Zelensky ed escludendo qualsiasi rappresentante del Cremlino. Pur non avendo sortito alcun risultato concreto, la conferenza di pace voluta da MbS è stata, comunque, un successo rimarchevole per il Regno, equiparandolo al peso internazionale di giganti come quelli cinese, turco e (forse) indiano, protagonisti di altri tentativi di mediazione per dirimere il conflitto russo-ucraino. D’altro canto, al termine della già citata intervista a Fox News, il principe, riferendosi al proprio Paese, ha lanciato una sfida al suo intervistatore, chiedendogli se fosse pronto a non perdersi “il più grande successo del XXI secolo”. Se Riyadh sarà la capitale della “Nuova Europa” (il Medio Oriente secondo MbS) lo dirà solo il tempo.