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“Non è il febbraio del 2014”? La crisi ucraina e la risposta di Kiev

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La crisi ucraina sembra sempre più vicina al suo apice. Tra scenari improbabili, previsioni premature e campagne di disinformazione da ambo le parti, la fog of war si fa via via più densa. Premesso ancora una volta che le dichiarazioni pubbliche, prese singolarmente, non sono mai un metro di misura attendibile nella valutazione dell’effettivo stato dell’arte della crisi, possono offrire importanti spunti di riflessione: ci permettono di stendere un breve riassunto degli ultimi sviluppi. Di seguito cercheremo di stendere una breve ricapitolazione, attraverso le parole del Presidente Volodymyr Zelensky, di cosa sta accadendo sul fronte ucraino. È importante ricordare che il seguente articolo è in balia degli eventi e degli sviluppi dell’ultima ora, pertanto, ad oggi ci limiteremo a contestualizzare gli eventi, così da non precluderci la possibilità di operare un’analisi di più ampio respiro ex post. 

Zelensky 1.0

Ore 3 locali del 22 febbraio, Volodymyr Zelensky parla alla nazione dopo il riconoscimento da parte del suo omologo russo, Vladimir Putin, delle due repubbliche autoproclamate del Donbass: Donetsk e Lugansk. A questo si aggiunge il dispiegamento nel territorio ucraino di ulteriori compagini militari russe che vanno ad infoltire gli schieramenti, ufficiali e non, già presenti dal 2014. La missione, almeno ufficialmente, è quella di “mantenere la pace”. Nel suo discorso, il Presidente ucraino, ha ribadito, fermamente, la volontà di non voler cedere, in alcun modo, alle rivendicazioni russe. 

Nulla di più esemplificativo poteva scegliere Zelensky per parlare alla nazione: alle sue spalle la carta geografica dell’Ucraina. In questa immagine è racchiuso il significato del messaggio: «Questi sono i suoi confini riconosciuti a livello internazionale e tali rimarranno». Potrebbe essere sintetizzato così l’intervento del Presidente ucraino, già coinciso di per sé. Al contrario di quello tenuto da Vladimir Putin, il primo discorso di Zelensky è stato breve, diretto, deciso, fermo, scarno di retorica o di qualsiasi altra digressione, di stampo storico o filosofico. Kiev è stata chiara: «non è il febbraio 2014, è il febbraio 2022 ed esiste un unico obiettivo: la pace». Nelle poche parole espresse dal Presidente, tra le quali risuonano le espressioni «siamo nella nostra terra» e «non daremo via niente a nessuno», emerge l’intento di sottolineare, ancora una volta, le diversità strategiche, i diversi approcci alla crisi e le differenti valutazioni per la risoluzione di questa guerra a bassa intensità (per lo meno allo stato attuale). Il contrasto è evidente non solo per la lunghezza del discorso presentato, ma anche nella comunicazione. Distinguendosi dalla corposa e provocatoria analisi proposta in prima persona da Putin, nelle parole di Zelensky emerge la volontà di accrescere il sentimento di unità nazionale: il Presidente parla in nome dei suoi cittadini, deve essere ed è l’Ucraina tutta che riconosce e condanna le responsabilità di Mosca ed è tutto il popolo ucraino che non deve e non vuole sottostare all’intervento russo. 

Gli obiettivi di Mosca

Lunedì, in diretta TV, il Presidente russo Vladimir Putin, dopo la delibera della settimana scorsa da parte della Duma di Stato, ha firmato il decreto per il riconoscimento delle due repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk. I due territori, a sud-est dell’Ucraina o, utilizzando le parole del Presidente russo, «a sud-ovest della Russia», occupano la gran parte dell’ormai arcinoto Donbass, un territorio di fatto né particolarmente strategico né ricco di materie prime. 

Allora perché il Donbass? Entra in gioco il rapporto tra i cittadini stanziati in questi territori e la Russia. La Russia è già presente militarmente nel territorio dal 2014, ed ha, a più riprese, cercato di premurare la fedeltà degli abitanti. Inoltre, dal 18 febbraio sono più di 60.000 gli ex-cittadini ucraini e più di 35.000 i residenti russi che hanno attraversato il confine per recarsi in territorio russo. La secessione delle due repubbliche e il conseguente arrivo di ulteriori truppe russe all’interno del territorio, di diritto ancora ucraino (ma non di fatto), ha destabilizzato ancor di più la già precaria situazione di Kiev, schiacciata in un braccio di ferro tra Russia e Occidente, tra Mosca e NATO. In quest’ottica, per nulla secondario, è l’obiettivo – di fatto già raggiunto – di far emerge le contraddizioni e le divergenze strategiche, nonché le differenti necessità, tra le potenze occidentali. Appare allora evidente che Putin chieda non solo la neutralità dell’Ucraina (l’entrata nella NATO o nell’UE non è minimamente pensabile per Mosca), ma anche una revisione dell’assetto securitario all’interno dell’Europa. 

Un passo indietro

Il rimando alla Dottrina Gerasimov, nell’analisi dell’odierna crisi ucraina, sembra tanto immediato quanto necessario. Se l’Hybrid warfare e la protezione offerta da Mosca alla popolazione russa stabilitasi in altri territori hanno dato un’anteprima della loro efficacia in Georgia nel 2008, è nel 2013, con il già citato Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Russe, che si giunge alla loro completa teorizzazione, e solo, nel 2014, in Crimea che si ha la loro piena attuazione e concretizzazione. Ciò porta ad evidenziare come sia possibile rintracciare un modus operandi quantomeno similare nelle tre crisi. 

Zelensky 2.0

Tralasciando le iperboli storiche con cui Mosca ha delegittimato la sovranità ucraina nei territori contesi, arrivando addirittura ad accusare Lenin di aver «sbagliato i calcoli nel disegnare l’Ucraina», la notizia che ha riacceso l’attenzione dei media di tutto il mondo è quella della firma, da parte di Zelensky, del decreto di mobilitazione dei riservisti. La notizia va necessariamente interpretata in chiave difensiva come risposta, quasi contemporanea nei tempi, alle dichiarazioni di Putin in merito al riconoscimento di Donetsk e Lugansk, riconoscimento non solo dei confini ad oggi controllati, ma anche di quelli precedenti all’indipendenza, ovvero ai confini dei rispettivi oblast amministrativi nel sistema ucraino. Questo apre, per la prima volta, un concreto interrogativo su quanto in realtà la Russia voglia spingersi verso Kiev. 

A questo punto, il rischio di un’escalation militare su vasta scala esisteva già. Anche se Putin sembra aprire alla diplomazia, quarantotto ore dal riconoscimento delle repubbliche separatiste, il Consiglio di Sicurezza di Kiev impone lo stato di emergenza e legittima il possesso di armi ai civili, anche se non nei territori di Donetsk e Lugansk. Gli Stati Uniti allertano oltre 8.500 unità, confermano inoltre l’invio nei Baltici di circa 800 soldati dall’Italia, lo spostamento dalla Germania di otto aerei F35 e venti elicotteri d’attacco Apache – progettati proprio per contrastare i tank russi – ed il trasferimento della stessa quantità di velivoli specializzati dalla Grecia alla Polonia. Seppur tardiva e zoppicante, arriva infine anche la reazione dell’UE e della Gran Bretagna, con l’interruzione del progetto di revisione del gasdotto NS2 e un pacchetto di sanzioni, in evoluzione progressiva e proporzionale, approvata dal Consiglio straordinario dei Ministri degli Esteri di 27 paesi convocato da Josep Borrell. 

Zelinsky 3.0

La sera del 23 febbraio, Zelensky in un discorso in diretta TV si è rivolto per la prima volta ai cittadini russi, in russo, cessando di fare riferimento al negoziato: «Ti stanno dicendo che questa fiamma libererà il popolo ucraino, ma il popolo ucraino è libero»; «Ti hanno detto di attaccare il Donbass, aprire il fuoco e bombardare indiscriminatamente… ma per sparare a chi? bombardare chi? Penso a te, hai parenti in Ucraina, hai studiato nelle università ucraine, hai amici ucraini»; «Ascolta la tua mente, la voce della ragione». Si riveleranno però inutili gli appelli del Presidente ucraino. 

Nel cuore della notte, ore 3 di mosca, arriva la notizia che ha sconvolto l’Europa: Putin annuncia l’entrata di truppe russe in Ucraina, non solo nel Donbass. La guerra è ufficialmente iniziata. 

L’escalation militare inizia, i bombardamenti sembrano abbattersi, per quanto possibile, solo sugli obiettivi strategicamente rilevanti (infrastrutture, basi militari, sistemi di telecomunicazione, arterie della viabilità e aeroporti). In poche ore il Donbass è isolato e sull’Ucraina si abbattono le conseguenze della no-fly zone. Cominciano a circolare le immagini e i video crudi che tutti noi conosciamo. Il gap tra i due eserciti è immenso, tale da rendere impensabile qualsiasi controffensiva ucraina in un confronto aperto.

Zelensky 4.0

Giovedì 24 febbraio, Zelensky si rivolge nuovamente alla nazione, annuncia nuovi attacchi di Mosca alla capitale, più di cento vittime, militari e non, ribadendo di non voler lasciare Kiev che, stando agli ultimi aggiornamenti è circondata. «Ci hanno lasciati soli». Perentorio l’incipit, con qualche sfumatura di risentimento e delusione per l’atteggiamento dell’Occidente, inteso in senso lato. Il corpo del discorso è ancora una volta l’invito, ancora più esplicito, alla popolazione ucraina di rimanere unita, di non cedere all’”Invasore”. «Difenderemo la nostra terra, ma abbiamo bisogno di un’assistenza internazionale efficace», concludendo il Presidente ucraino lancia un appello, ad oggi impossibile da raccogliere: «chi è pronto a combattere con noi? Io non vedo nessuno. Chi è pronto a dare all’Ucraina una garanzia di adesione alla NATO?»

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