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L’approccio securitario dell’Unione Europea ai flussi migratori sulla rotta del Mediterraneo Centrale: la crisi libica del 2013

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All’alba del 3 ottobre 2013 un’imbarcazione trasportante migranti partita la sera prima dalla costa libica è affondata al largo di Lampedusa: almeno 368 i morti, quasi tutti originari dell’Eritrea. Si tratta di una delle più gravi catastrofi umanitarie sulla rotta migratoria del Mediterraneo Centrale, lungo la quale tra il 2013 e il 2021 i migranti morti o dispersi, secondo i dati delle Nazioni Unite, sono stati più di 17.800. Questo flusso migratorio innescato dalla crisi istituzionale libica del 2013 è risultato di difficile gestione sia per l’Italia, principale destinazione delle imbarcazioni adibite al trasporto dei migranti, sia per l’Unione Europea, determinata a difendere le proprie frontiere esterne.

Libia: da Paese di immigrazione a Paese di transito

Fino all’inizio del ventunesimo secolo, gran parte dei flussi migratori africani ebbe luogo all’interno del continente, e ruotò intorno ai centri economici africani in crescita, come la Libia. Quest’ultima fu per decenni un Paese di immigrazione, destinazione finale dei migranti economici dell’Africa Subsahariana chiamati dal governo del colonnello Gheddafi per far fronte all’elevata domanda di manodopera nel settore energetico (petrolio e gas) e edilizio: nel 2009 la Libia ospitava infatti sul suo territorio 2.5 milioni di migranti. 

Dalla sua posizione strategica al centro della costa settentrionale africana, la Libia cominciò negli anni Novanta ad essere Paese di transito per i migranti del Corno d’Africa determinati a raggiungere l’Europa attraverso la pericolosa rotta del Mediterraneo Centrale, che coinvolge le frontiere marittime di Libia, Tunisia, Malta, e Italia. Tuttavia, grazie al controllo totale del territorio da parte del regime di Gheddafi, in costante negoziazione con la comunità internazionale, i flussi migratori rimasero sempre contenuti. Questi aumentarono drasticamente dall’inizio del primo conflitto civile nel 2011, ovvero quando i Paesi europei non ebbero più un interlocutore dall’altra parte della costa mediterranea. Dall’autunno 2013, segnato dai primi scontri armati tra le principali milizie libiche a Tripoli, la gestione delle migrazioni favorì lo sviluppo di forti collegamenti tra reti criminali, milizie armate e trafficanti, sostituitesi nel frattempo ai passeurs tradizionali. Un ruolo chiave nel business del contrabbando fu quello svolto dai centri di detenzione per i migranti, la maggior parte dei quali gestiti dalle milizie, che li utilizzavano come fonte di finanziamento: i migranti erano infatti costretti a pagare tangenti per essere rilasciati e proseguire il loro viaggio verso l’Europa. 

Dato il deterioramento della situazione nel Paese negli anni che seguirono la caduta del regime del Colonnello, 1.2 milioni di persone lasciarono la Libia: anche se la maggior parte si diresse verso Tunisia ed Egitto, molti africani (tra i quali solamente una minoranza di libici) si imbarcarono verso l’Italia, che nel 2014 e 2015, secondo i dati dell’agenzia ONU per i rifugiati, registrò rispettivamente l’arrivo di 170mila e 154mila migranti. 

Il ruolo dell’Italia 

L’Italia ricopre da anni un ruolo centrale nelle relazioni tra l’Europa e la Libia, sia per via della breve porzione di Mediterraneo che separa i due Paesi, che per via del suo passato coloniale. Negli anni 2000, durante il regime di Gheddafi, fu l’Italia, e non l’Unione Europea, a gestire i rapporti con il regime libico. Quando l’Italia registrò un picco di arrivi, 57mila, nel 2008, stipulò con Gheddafi il Trattato di amicizia italo-libico: Roma si impegnava a versare 5 miliardi di dollari in vent’anni come risarcimento per i danni arrecati negli anni del colonialismo e a consegnare alla Libia quattro motovedette per il pattugliamento delle coste; la controparte libica doveva invece occuparsi della distruzione della rete di passeurs che gestiva il traffico di migranti verso le coste dell’Europa. Grazie a questo accordo, tra il 2009 e il 2011 il numero di arrivi in Italia diminuì drasticamente. 

Quando, in seguito alla caduta del regime, sia il numero di migranti diretti verso le sue coste, che quello dei morti e dispersi in mare, come nel caso della tragedia di Lampedusa, aumentò drasticamente, l’Italia si vide di nuovo costretta ad intervenire, ancora una volta autonomamente rispetto all’Unione Europea, la cui risposta tardava ad arrivare. Il 18 ottobre 2013 la Marina Militare e l’Aeronautica Militare italiane iniziarono l’operazione militare e umanitaria nel Mar Mediterraneo denominata Mare Nostrum. L’operazione aveva due principali obiettivi: garantire la salvaguardia della vita in mare e assicurare alla giustizia tutti coloro che lucravano sul traffico illegale dei migranti. Durante l’anno di attività, grazie all’operazione italiana furono 160mila i migranti salvati in mare e portati in Italia, e 500 gli scafisti arrestati. Nonostante i buoni risultati, l’elevato costo dell’operazione (circa 9.5 milioni al mese), le mozioni per la sospensione delle operazioni da parte dei partiti di centro-destra all’opposizione al governo italiano guidato da Renzi, e l’accusa dell’Unione Europea di incentivare le partenze dalle coste libiche, Mare Nostrum fu conclusa il 31 ottobre 2014. 

La risposta dell’Unione Europea 

La risposta dell’UE ai flussi migratori generati dalla crisi libica del 2013 si trova perfettamente in linea con l’approccio comunitario alle migrazioni, rimasto costante dal suo avvio negli anni Novanta. Infatti, le politiche migratorie comunitarie sono state fin dal principio integrate da elementi di carattere securitario, e quindi sempre focalizzate sulla protezione delle frontiere esterne dai flussi migratori. Inoltre, nell’ambito delle politiche migratorie dell’UE, la dimensione esterna, ovvero di cooperazione tra l’Unione e i Paesi terzi da dove partono o transitano i flussi migratori, ha acquisito una rilevanza sempre maggiore, includendo nuove misure e Paesi nel corso degli anni.

L’Unione sostituì l’Italia nella gestione delle operazioni volte a contrastare il flusso di migranti alla fine del 2014, attraverso le operazioni Triton nel 2014 e Sophia nel 2015. A differenza di Mare Nostrum, queste operazioni erano volte esclusivamente a sorvegliare le acque internazionali, controllare le frontiere libiche e combattere i traffici illegali di migranti, e dunque prive di carattere umanitario. 

Per quanto riguarda invece i processi di esternalizzazione ei il coinvolgimento della Libia nel contenimento dei flussi, l’UE ebbe inizialmente difficoltà nel cooperare con il Paese nordafricano, principalmente data l’impossibilità di individuare un singolo autorevole interlocutore tra le milizie al controllo della Guardia Costiera Libica. Tuttavia, dal 2015 l’Unione riuscì a stabilire accordi con le milizie, confermando il proprio approccio alle migrazioni e dimostrando di essere pronta a cooperare anche con un Paese definito dalle Nazioni Unite come “non sicuro” pur di tenere i migranti fuori dai propri confini. Determinante nella scelta di questo approccio integrato da elementi di carattere securitario fu anche la diffusione negli stati membri dell’UE di partiti populisti tendenzialmente euroscettici ed esplicitamente contrari ad accogliere migranti nei propri territori.Pur riconoscendo la difficile situazione dell’Unione, quest’ultima, concentrando i propri sforzi prettamente sul controllo dei flussi migratori, senza tenere in considerazione la crisi politico-istituzionale in cui si trovava la Libia, bloccò soltanto temporaneamente il flusso migratorio. Difatti, dal 2021 la Libia è tornata ad essere il primo Paese di partenza sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Ad aumentare sono state anche le operazioni di ricerca e soccorso operate dalla guardia costiera libica, volte a “salvare” i migranti in mare per poi riportali nei sovrappopolati centri di detenzione libici, finanziati dall’UE attraverso il Fondo Europeo di Solidarietà con l’Africa. Questi dati, così come un rapporto interno del comandante dell’operazione navale Eunavfor Med Irini pubblicato dall’Associated press il 25 gennaio 2022, che riporta l’“uso eccessivo di forza” da parte della guardia costiera libica, confermano la volontà delle autorità europee di continuare la cooperazione con la guardia costiera libica, e suggeriscono tristemente come l’impermeabilità dei confini esterni sia apparentemente ancora una priorità dell’Unione rispetto alla protezione dei diritti umani dei migranti coinvolti.

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