Le immagini e le notizie che in queste ore ci arrivano dall’Ucraina, con gli attacchi a Kiev, Odessa e Kharkiv da parte delle forze russe, ci raccontano di una situazione geopolitica in apparente caduta: sembra che si stiano concretizzando scenari che credevamo impensabili per i nostri, ma qui sta uno degli errori del mondo occidentale. L’esercito russo sta infatti dando seguito a un’aggressione su vasca scala che parrebbe contraddire – il condizionale è d’obbligo, almeno per il momento – le prevalenti tesi degli ultimi giorni su un intervento mirato di Mosca alle regioni autonome del Lugansk e Donetsk. Tutto, ad oggi, porterebbe a pensare a un tentativo di acquisizione più ampio raggio da parte del Cremlino, che sta forse approfittando dell’inadeguata risposta occidentale.
Come si è arrivati a tale situazione, di fronte alla quale i decisori politici e gli osservatori occidentali sembrano del tutto impreparati? Eppure i campanelli d’allarme nelle ultime settimane sono stati numerosi: la possibile avanzata russa è stata annunciata da organi di informazione di primo rilievo, nonché dagli stessi vertici russi: si pensi al discorso di Putin di lunedì scorso e alle minacce sui prezzi del gas per l’Europa. La crisi nell’Est dell’Ucraina non è certo nuova: si è affacciata drammaticamente dal novembre del 2013 con le proteste di Euromaidan e poi con le critiche fasi militari e diplomatiche che ne hanno fatto seguito. Senza considerare i precedenti della Rivoluzione arancione del 2004 e i repentini e continui stravolgimenti politici tra partiti filo-occidentali e filo-russi ai vertici del governo di Kiev. Si trattava di presupposti politici, geografici e strategici molto chiari, che si basavano su questioni dimenticate da parte del mondo occidentale: identità etniche, culturali, linguistiche e storiche che per parte del mondo secolarizzato appartengono ad altre fasi dell’umanità, ma che in altri contesti geografici continuano a rivestire un’importanza cruciale.
E infatti, nonostante tali premesse, lo scenario a cui assistiamo oggi coglie del tutto impreparato l’Occidente, per diverse ragioni. Anzitutto, le questioni di politica estera sono state derubricate negli ultimi anni a pagine secondarie, soprattutto in Italia, complice anche la vicenda pandemica che ha visto una concentrazione parossistica delle forze politiche e mentali di interi settori del paese e di parte del mondo occidentale su un’altra guerra, quella al virus. Si è tralasciato così di considerare i conflitti classici, quelli combattute per il possesso del territorio e le loro implicazioni sull’intero assetto economico e politico nazionale. Non sfuggirà ad esempio che proprio nell’estate del 2020, mentre in Italia il dibattito era tutto focalizzato sulle tipologie di banchi da usare a scuola, la Turchia – così come la Russia – avanzavano indisturbate e con prepotenza nel contesto libico ai danni delle nostre posizioni strategiche ed energetiche.
Proprio sulla questione energetica il mondo europeo mostra oggi le sue più evidenti fragilità politiche e le sue più forti contraddizioni: nessuna posizione unitaria, non una voce univoca, ma un ingarbugliato intreccio di interessi particolari mostrati dalle mosse di Macron e Scholz, che hanno prodotto un’indecisione e una flebile voce dettata dalla realtà che ci vede dipendenti per circa il 41% dalle forniture di gas della Russia. Si pone, poi, un’altra questione, relativa al dibattito più recente sulla transizione ecologica in ambito europeo, con tutto ciò che essa comporta e vuol dire. L’Unione Europea, con il PNRR e con il green deal si è sì proiettata verso un superamento della dipendenza dalle fonti dei combustibili fossili e dunque anche da quel 90% di importazioni di gas dall’estero, ma si tratta di progetti – su cui il dibattito, occorre ricordarlo, dovrebbe sempre mantenersi aperto – di medio-lungo periodo. Nel breve, invece, cos’accade?
Le imprese e i cittadini italiani stanno già subendo gli enormi rincari nelle bollette. Le risposte fornite all’attuale crisi, sebbene siano tese a colpire la Russia, in un rinculo prepotente si ripercuoteranno inevitabilmente anche su chi le commina. Minacciare di mantenere chiuso il Nord Stream 2 comporterà un progressivo innalzamento dei prezzi del gas che subiranno tutti i cittadini europei. Minacciare – come ha fatto il commissario europeo Joseph Borrell Fontelles esultando con un tweet – di non far accedere i russi allo shopping milanese, al turismo di Saint-Tropez e ai diamanti di Anversa, non solo denota un’inadeguatezza nella comunicazione politica, ma anche l’incapacità di vedere le ripercussioni che questo comporta per l’economia europea. Minacciare, come ha fatto Mario Draghi, azioni di rivalsa economica, precisando che non dovranno riguardare l’ambito energetico, dimostra una sostanziale debolezza politica nonché diplomatica.
Le mosse di Putin non casualmente sembrano il frutto anche dell’impreparazione dei paesi occidentali e del loro incedere incerto e indeciso. Mentre le prime mosse del Cremlino facevano presupporre un’azione più mirata, tendente cioè ad acquisire con certezza i territori russofoni di cui aveva riconosciuto l’indipendenza e senza azzardare ulteriori mosse che avrebbero rischiato di innescare una risposta dei paesi che sostengono l’Ucraina, la reazione debole e per nulla efficace degli USA e dell’UE ha forse convinto Putin ad affondare il colpo fino a Kiev.
Il mondo occidentale, troppo aggrovigliato su se stesso, ha fino a questo momento risposto all’aggressività russa con pistole scariche, pensando di risolvere questioni militari con l’arma economica. Da una parte gli Stati Uniti sembrano – almeno ad oggi – aver perso parte della loro capacità di essere una vera potenza globale, di dirimere cioè con efficacia e nell’immediato le crisi che dovessero scoppiare in ogni luogo del mondo grazie alla loro potenza militare; dall’altra i paesi dell’UE sono tutti improntati alla logica nazionale e con un potere deterrente che dal punto di vista militare è nullo, se lo si considera in termini unitari.
Al di là delle dichiarazioni di facciata sullo stato di diritto e sulla difesa delle minoranze (che talvolta sembrano anche stridere con quanto accade nei propri contesti nazionali), le diplomazie europee si sono trovate fino ad ora del tutto impreparate di fronte all’azione muscolare di Mosca e alla sua assertività diplomatica, ben rimarcata dalle durissime parole del Ministro degli Esteri russo Lavrov nei confronti dell’omologo italiano. Non solo: nell’incertezza decisionale si ravvisa il senso della separatezza sostanziale del mondo europeo, incapace di leggere le crisi geopolitiche nella loro portata storica e strategica, nelle rivendicazioni territoriali e talvolta identitarie avanzate in certi contesti. Le categorie concettuali con le quali si tenta di interpretare la realtà al di fuori dei nostri confini sono infatti talmente distanti da portarci a interpretare le mosse di Putin unicamente in chiave psichiatrica, senza considerare che altrove da noi gli aspetti preminenti possono essere altri – senza con ciò volerli o doverli giustificare.
Resta ora da comprendere, tra gli altri aspetti, quanto le posizioni dell’avanzata russa odierna verranno consolidate estesamente sul territorio ucraino e quanto, invece, l’obiettivo finale rimarrà quello di consolidare la vicinanza delle due regioni indipendentistiche russofone del Donbass. In ogni caso, appare necessario uno sforzo da parte del mondo occidentale per porsi obiettivi strategici di breve e medio periodo. Per superare cioè quella patina di retorica e vuoto diplomatico che troppo spesso avvolge le cancellerie europee.