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La crisi di Credit Suisse e della SVB: le conseguenze geopolitiche

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Prima la Silicon Valley Bank, dedita a finanziare progetti ad alto impatto tecnologico ma molto rischiosi, in un gioco speculativo e finanziario che ha portato progressivamente al crack della banca che solo pochi mesi prima era stata considerata da Forbes come una delle migliori negli Stati Uniti. Poi Credit Suisse, che sta vivendo in questi giorni una crisi profondissima di credibilità e una fuga di liquidità che ha portato la Banca Centrale Svizzera a erogare prestiti per circa 50 miliardi di franchi. Come ha sostenuto il capo di BlackRock, Larry Fink, la crisi della SVB potrebbe essere solo la prima tessera di un domino assai più ampio.

Le crisi

Si tratta infatti di due eventi non slegati tra loro e che, in un quadro unitario, rappresentano una pericolosissima catena di crisi della finanza internazionale destinata ad avere ripercussioni di medio e lungo periodo, per il settore economico ma anche con implicazioni geopolitiche rilevantissime.

Senza considerare che quasi nessuno, inoltre, pare considerare il rischio dell’enorme bolla speculativa sugli NFT e sui titoli del mondo sommerso della blockchain. Una bolla che, per via dalla virtualità dei titoli scambiati, in mancanza cioè del dato reale e del valore concreto (d’altronde, sono Non-Fungible-Token) prima o poi è destinata a scoppiare, con effetti a cascata sull’economia reale che nella storia abbiamo già vissuto, con le stesse identiche motivazioni. Il primo caso fu quello della bolla sui bulbi di tulipano del 1636: anzi, in quel caso, una seppur labile aderenza con la realtà, a dire il vero, vi era.

Su SVB e Credit Suisse si deve evidenziare come, a soli quindici anni di distanza dal fallimento della Lehman Brothers e dalla crisi dei derivati sui mutui subprime – che ha avuto conseguenze drammatiche per l’economia reale non solo negli Usa, ma anche nel resto del mondo –, la galassia finanziaria sia ancora oggi fautrice di crisi che si ripercuotono su risparmiatori e singoli cittadini, senza che si intravedano responsabili individuali. La stessa Credit Suisse era stata coinvolta nella crisi del 2007-2008, con ingenti perdite e con conseguenze dirette in termini di credibilità, ma al di là di multe – anche piuttosto salate – e sanzioni comminate ai maggiori istituti bancari americani ed europei, per un totale di circa 345 miliardi di dollari, non si è attivato né un meccanismo di controllo del gioco speculativo né una griglia capace di evitare gli effetti disastrosi della finanza. Anzi, se nell’estate del 2008 c’era stata un’ondata di circa 300 arresti, nel corso degli anni i principali imputati – tra questi, Ralph Cioffi e Matthew Tannin – sono stati dichiarati non colpevoli dell’accusa di frode e costretti a pagare sanzioni amministrative rispettivamente per 100mila e 50mila dollari (spiccioli, se si pensa alle enormi speculazioni fatte in precedenza) e furono interdetti dai mercati finanziari per 3 e 2 anni. In pratica, un nulla di fatto in termini di responsabilità.

Le conseguenze delle crisi

Ora, la fuga dei creditori sauditi dalla Credit Suisse, parallelamente alla crisi dall’altra parte dell’Oceano, che riguarda il settore delle start up ad alto contenuto tecnologico, rischia di avere due conseguenze rilevanti.

Da una parte, un ulteriore effetto a catena, derivante dal “sentiment” di generale sfiducia dei cosiddetti “mercati”, con il rischio concreto di portare a una crisi del credito ancor più estesa. Credit Suisse fa infatti parte del cosiddetto del mondo delle Bulge Bracket, cioè le maggiori banche d’investimento multinazionali del settore finanziario, che agiscono sulle principali borse mondiali. Inoltre, Credit Suisse è compartecipata non solo dalla Saudi National Bank, ma anche dalla Qatar Holding (5,03%) e dalle americane Dodge & Cox (4,99%) e soprattutto BlackRock (4,53%). Le sue azioni nominative sono quotate sia nella borsa di Zurigo sia in quella di New York: appare evidente come il prestito temporaneo di 50 miliardi comporti il pericolo di una toppa troppo piccola per una falla che potrebbe apparire assai più grande di quanto non appaia ora.

Dall’altra parte, il pericolo più “geopolitico” di tale crisi è che – sebbene i mercati finanziari agiscano con prospettive proprie e non guardando ai confini nazionali – si inneschi comunque una frattura interna ai mondi politici di cui i fondi di investimento e le banche centrali fanno parte. Se, infatti, proprio negli ultimi mesi sembra essersi verificato un certo distacco dell’Arabia Saudita dal raggio d’azione strategico degli Usa, complice anche la posizione di Riyad nei confronti della guerra in Ucraina e l’accordo con Mosca nel vertice Opec Plus relativo alla produzione di petrolio, tale distacco potrebbe ulteriormente acuirsi, determinando una rottura degli equilibri strategici nel Medio Oriente e, in un effetto domino, degli equilibri mondiali. Da questo punto di vista, la fuga da Credit Suisse da parte della Banca Saudita può anche essere letta come il sintomo, più che una concausa, della fragilità delle relazioni tra i due paesi in questa fase storica.

Gli effetti geopolitici

Un ulteriore elemento di riflessione riguarda proprio lo scenario ucraino: se infatti una tale crisi dovesse acuirsi ulteriormente, coinvolgendo altri istituti bancari statunitensi o europei, si rischierebbe di minare alle sue fondamenta la strategia di aperto sostegno all’Ucraina adottata dai paesi Nato: non solo perché nell’eventualità di una crisi che inevitabilmente si ripercuoterebbe sui cittadini in termini di portafoglio individuale e di economia reale, verrebbe meno il già fragile supporto della popolazione occidentale alla causa ucraina (i sondaggi parlano di un 56% della popolazione europea favorevole all’invio di armi, con un ribaltamento delle posizioni nei paesi come l’Italia e la Grecia si arriva al 60% dei contrari all’invio di armi), ma anche perché sarebbe assai più difficile giustificare le ingenti risorse che il supporto alla causa ucraina comporta.

Nel caso degli Usa, infatti, si è già assistito con l’ultima crisi del 2008 alla riduzione della capacità di intervento militare nel mondo, minando la centralità statunitense nel quadro geopolitico mondiale, proprio in virtù dell’opinione pubblica che – colpita dalla crisi in prima battuta – cominciava di lì in avanti a considerare sempre più superflui gli scenari bellici aperti 5 e 7 anni prima in Iraq e in Afganistan. Se si riflette su quanto l’opinione pubblica stia considerando, in un paese come la Francia, dirimenti le politiche della presidenza Macron, sull’età pensionabile, l’ulteriore tassello di una crisi finanziaria potrebbe dare il colpo di grazia a una fragilità sociale oggi già evidentissima (e, non dimentichiamolo, solo messa in freezer dal Covid, che ha interrotto nei fatti le proteste dei Gilet gialli che andavano avanti da circa 50 settimane).

In merito alla SVB, inoltre, bisogna considerare gli effetti che tale crisi potrà avere sulle future presidenziali Usa. È la banca accusata da giornali come il New York Post e dal mondo repubblicano di aver fallito per investimenti sbagliati, orientati ideologicamente. Gli aiuti forniti dall’amministrazione Biden, che stanno già di gran lunga superando il tetto di 250.000 dollari, normalmente previsto nei casi di fallimento bancario, potrebbero in tal senso fornire il destro ai candidati repubblicani per affondare il colpo nella campagna presidenziale del prossimo anno.

L’attuale crisi della SVB e di Credit Suisse, dunque, potrebbe ripercuotersi sia a livello meramente finanziario sia a un livello geopolitico ben più ampio, determinando degli ulteriori squilibri in un contesto mondiale dove gli scossoni della guerra in Ucraina si fanno sentire giornalmente. Non solo: occorre anche considerare quanto a lungo termine potrebbe emergere la beffa di un mondo occidentale che ha comminato pesanti sanzioni alla Russia ma che, per un gioco di paradossi, vede oggi una retrocessione proprio degli istituti bancari occidentali. Una beffa che non può essere tenuta sotto traccia troppo a lungo.

Alessandro Ricci

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