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Covid-19#Covid19: gli anni del miracolo coreano

#Covid19: gli anni del miracolo coreano

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Appena assunto il potere, il nuovo Governo militare volle imprimere anche alla politica economica una svolta in senso nazionalista, caratterizzata dall’impegno a trasformare la Corea del Sud da frammento di nazione, la cui riunificazione appariva ormai molto improbabile (tanto attraverso il negoziato tra i due blocchi quanto attraverso la riconquista militare delle provincie settentrionali), in un centro agglutinante attorno al quale l’altra Corea avrebbe finito inevitabilmente per gravitare.  

Il governo di Park Chung Hee si diede ambiziosi obiettivi di sviluppo, destinati, da un lato a dimostrare la superiorità del sistema capitalista rispetto alla rozza tirannia socialista del Nord, e tendenti – dall’altro – a liberare la Corea da ogni complesso di inferiorità nei confronti dell’ex potenza coloniale, ora diventato il grande vicino dell’Est.  

Accettando l’idea che la divisione del Paese doveva essere considerata irreversibile per un periodo indefinito di tempo, il regime di Park rappresenta l’accettazione della sfida – da parte del popolo sudcoreano – a costruire, nella metà meridionale del territorio nazionale, una società moderna e sviluppata, capace di far emergere la Corea del Sud come la “vera” Corea, e in prospettiva – come in effetti è avvenuto – in grado di relegare la monarchia comunista del Nord in una posizione di irrilevanza, di marginalità e in definitiva di satellizzazione.  

Pochi mesi dopo l’avvento al potere, il governo militare elaborò il primo di una serie di Piani quinquennali di sviluppo, un documento nel quale per la prima volta, lo sviluppo economico veniva presentato come un obiettivo nazionale cui era collegata la sopravvivenza di un piccolo Stato che si trovava di fronte a un nemico estremamente aggressivo, e aggrappato al margine estremo di un continente totalmente dominato da forze ostili.  

Park Chung Hee, resterà al potere dal 1961 sino al suo assassinio nell’ottobre del 1979: sono di diciotto anni cruciali nella storia della Corea moderna, nel corso dei quali, il Paese subirà trasformazioni economiche e sociali profondissime.  

Molto è stato scritto sul carattere repressivo del regime instaurato dal colpo di Stato militare del 1961; minore attenzione ha invece suscitato la svolta di politica economica rappresentata da questo regime, esplicitamente impegnato nello sviluppo economico, e che si dimostrerà, alla prova dei fatti, capace di tradurre il suo impegno in straordinari risultati. 

La strategia attraverso cui – nel corso degli anni ’60 e ’70 – la Corea sarebbe uscita dalle tragiche condizioni che avevano caratterizzato gli anni ’50, era fondata anche questa volta tre elementi, ma profondamente diversi dai precedenti. 1) In primo luogo una riforma della struttura economica che conferisse al settore pubblico il controllo dei centri nevralgici dell’economia. 2) La creazione di uno stretto rapporto di collaborazione tra lo Stato e la classe capitalista dominante, tale da consentire – seguendo il modello Giapponese – di definire le priorità di sviluppo in armonia con gli interessi imprenditoriali, e di utilizzare tanto un sistema formale che informale “per trasmettere” dall’alto in basso gli impulsi governativi e per mettere in atto le azioni dei programmi. 3) La definizione di un meccanismo efficiente, discrezionale e selettivo per guidare la allocazione delle risorse nel modo desiderato.  

In questo senso, lo Stato sudcoreano utilizzò il suo enorme potere per creare un mercato del credito estremamente differenziato: il costo del denaro per gli imprenditori poteva variare moltissimo a seconda della priorità attribuita a ciascun settore dell’economia. Questa politica di sviluppo, in cui l’intervento pubblico svolge un forte ruolo di orientamento, rende il caso coreano per certi versi simile a quello dei non pochi Paesi del Terzo Mondo le cui esperienze di sviluppo industriale si sono invece spesso risolte in clamorosi e talora disastrosi insuccessi.  

C’è però da notare che, a differenza di quanto accade di norma nei Paesi arretrati che adottano politiche di industrializzazione fondate sull’intervento pubblico – le autorità coreane non hanno fatto ricorso, per indirizzare gli investimenti, solo di interventi sul mercato, cioè a restrizioni delle importazioni che si volevano sostituire.  

In realtà la Repubblica di Corea non aveva bisogno di ricorrere a questa pratica poco efficace e spesso controproducente, perché aveva sufficiente potere sul mercato dei capitali per intervenire direttamente sull’allocazione degli investimenti. Accanto al controllo del sistema creditizio, l’altro elemento utilizzato per attribuire al potere pubblico il dominio dei punti nevralgici del meccanismo di sviluppo fu proprio l’espansione della proprietà statale nel settore produttivo.  

Tutto ciò non deve far credere che il presidente Park e il suo entourage non fossero convinti sostenitori del sistema privatistico. Al contrario – pur con tutta l’enfasi posta sullo sviluppo del settore di proprietà o a partecipazione pubblica – essi restavano fermamente convinti che l’esistenza delle partecipazioni statali fosse necessaria solo al fine di assistere e sostenere la crescita di un’economia pienamente capitalista.  

E ciò in perfetta coerenza con i loro obiettivi politici generali – nazionalisti e anticomunisti – che puntavano a fare della Corea del Sud un Paese industrialmente forte e sviluppato, nel quadro di un’aperta sfida nei confronti della Corea del Nord e del suo sistema di dispotismo asiatico a matrice collettivistica.  

Per dirla con le stesse parole del Presidente: «la proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere incoraggiata incondizionatamente, tranne nei casi in cui è necessario controllarla per stimolare lo sviluppo nazionale e proteggere gli interessi del Paese».  

Come appare evidente, si tratta di una filosofia molto simile a quella che ha favorito la nascita del settore pubblico in molti Paesi occidentali – e tra questi l’Italia – nel periodo tra le due guerre, e al suo rafforzamento nel secondo dopoguerra.  

Accanto alla presenza proprietaria dello Stato nel settore bancario e in quello produttivo, l’altra parte della strategia di sviluppo della presidenza Park – fu come già detto – la creazione di un vincolo di collaborazione molto stretto tra il governo e l’ambiente imprenditoriale. Questa strategia neo-corporativa della gestione della politica economica ricorda a tal punto il modello giapponese, da far parlare dell’esistenza di una “Azienda Corea”, così come si parla di Japan Inc.  

Nel corso dei diciotto anni del regime Park sono stati redatti e parzialmente attuati quattro Piani quinquennali, relativi rispettivamente ai periodi 1961-66, 1967-71, 1972-76, 1977-81. La realizzazione dell’ultimo venne interrotta dai disordini politici che seguirono all’uccisione dello stesso Park, disordini successivamente aggravati dalla crisi mondiale che segnò il passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80.  

Inoltre, tutti i Piani – a eccezione del secondo – sono stati disturbati nella loro attuazione da eventi esterni che portarono a una revisioni degli obiettivi previsti. Ma la filosofia generale che li ispirava rimase sostanzialmente la stessa in tutto l’arco di tempo che va dal ’61 al ’79: tutti i Piani, infatti, si ponevano come obiettivi: 1) l’aumento del risparmio interno; 2) la riduzione del controllo sulle importazioni; 3) la promozione delle esportazioni; 3) la import-substitution selettiva nel campo dei beni capitali e intermedi; 4) l’investimento nel capitale fisso sociale; 5) l’autosufficienza in campo cerealicolo.  

I risultati del secondo piano di sviluppo furono particolarmente significativi; di fatto mancò tutti i suoi obiettivi, nel senso che lo sviluppo ottenuto fu di gran lunga superiore a quello previsto dal piano stesso. Tutte le “cifre di controllo” furono superate, una per tutte: l’obiettivo di espansione delle esportazioni prevedeva un incremento annuo del 17%, mentre in realtà fu del 37,8%.  

Negli anni successivi, tra il 1970 e il 1979, il tasso medio di crescita reale del Pil su base annua fu del 9,7%, mentre quello pro-capite correva al tasso annuo del 7-8 per cento.  

Questi dati spettacolari – che sembrano mostrare la continuità dello sviluppo coreano tra un decennio e l’altro (e successivamente anche nel cambio di regime e nella riconquista delle piene libertà politiche) – non possono tuttavia celare il fatto che le caratteristiche dell’economia coreana e la sua collocazione sui mercati internazionali sono andate rapidamente trasformandosi.  

Il principale cambiamento è relativo alla composizione delle esportazioni. Nei primi anni ’60, i principali beni esportati erano minerali metallici e loro concentrati, pesce e seta greggia. Nella seconda metà di quello stesso decennio, erano emersi come i prodotti più venduti all’estero quelli del settore tessile-abbigliamento, i compensati in legno e le parrucche. A metà degli anni ’70 le calzature, i prodotti siderurgici e quelli elettronici si erano aggiunti alla lista dei beni che la Corea riusciva a esportare con successo nel mondo. In seguito, diventano importanti fonti di valuta estera i macchinari elettrici e non elettrici e le esportazioni di ingegneria, e alla fine del decennio le autorità coreane incominciarono a promuovere con vigore produzioni ed esportazioni nella cantieristica navale (di cui sono diventati presto leader mondiali), nella petrolchimica e nell’industria automobilistica. Inoltre, verso la metà degli anni settanta, il Paese era anche diventato autosufficiente da un punto di vista alimentare e la sua “battaglia del grano” poteva dirsi conclusa e vinta.

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