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Covid-19: una svolta per la sfida della Cina all ‘ordine liberale?

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Col passare delle ore sta diventando chiaro che il COVID-19 non produce solo quei tragici effetti in termini di vite umane a cui tutti noi stiamo assistendo, ma che speriamo restino temporalmente circoscritti grazie all’enorme sacrificio compiuto dall’intero personale sanitario e alle gravose (sebbene assolutamente necessarie) modifiche imposte al nostro stile di vita. L’emergenza in corso rischia di avere anche risvolti politici di scala globale, che probabilmente diventeranno meglio visibili solo negli anni a venire.

Quella che inizialmente era sembrata un’improvvisa battuta d’arresto per l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese (RPC), sia sotto il profilo della crescita economica che del soft power, si è trasformata in un’incredibile occasione da cogliere per la strategia revisionista che Pechino sta attuando nei confronti dell’ordine internazionale liberale.
Procediamo per gradi. Anzitutto, definendo il bersaglio della sfida cinese. L’ordine internazionale liberale, già prefigurato a Washington durante la Seconda guerra mondiale e realizzato su quella parte del mondo non caduta nella sfera di influenza sovietica durante la Guerra fredda, ha preso forma compiutamente globale nel triennio 1989-1991. Tra i suoi “pilastri” figurano: 1) un divario incolmabile – almeno momentaneamente – tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi nelle principali dimensioni del potere (diplomatica, militare, economica, intellettuale); 2) la diffusione della democrazia e dell’economia di mercato, per favorire trasparenza nei processi decisionali, interdipendenza tra le nazioni e, di conseguenza, una maggiore propensione alla cooperazione; 3) le Organizzazioni internazionali, intese non solo come luogo di interazione – e potenzialmente di condivisione delle scelte – tra la potenza egemonica, i suoi alleati e i suoi partner, ma anche come strumento di progressiva integrazione dei suoi potenziali sfidanti nell’ordine internazionale; 4) la volontà degli Stati Uniti di esercitare la leadership, fornendo agli altri Paesi “servizi pubblici” (sicurezza, controllo e regolazione del sistema economico globale); 5) la disponibilità degli altri Stati a riconoscere a Washington tale ruolo.

Il dibattito intorno alla scelta della Cina di contestare l’ordine qui descritto per brevi capi, assumendo una postura “revisionista”, da almeno venti anni è oggetto di dibattito nella letteratura delle Relazioni internazionali. Le interpretazioni sorte in merito sono molto eterogenee. Soprattutto gli studiosi cinesi (Yan; Zhao) tendono a negare che Pechino sia interessata a questo genere di sfida, in quanto la cultura politica nazionale sarebbe diversa da quella occidentale. Pertanto, interpretare le politiche cinesi secondo i nostri paradigmi consueti (potenze conservatrici/revisioniste; strategia del balancing/bandwagoning) ci farebbe cadere in un pericoloso errore di interpretazione. Altri, invece, già da tempo sostengono che la sfida della RPC è già in atto e rischia di riportare gli assetti globali verso un riequilibrio di tipo bipolare (Allison; Layne; Kagan). Altri ancora, sostengono che il revisionismo cinese sia reale ma, al tempo stesso, connotato da una natura “incrementale” in quanto circoscritto ad alcune dimensioni funzionali e quadranti geopolitici e attento a evitare una competizione serrata con gli Stati Uniti (Mearsheimer; Mastanduno).
Secondo chi scrive, l’ultima interpretazione finora era la più convincente per tante ragioni. Anzitutto, perché i vertici del Partito Comunista Cinese avevano di fronte alcuni modelli di comportamento da non imitare, come quelli della Germania nazista e dell’Unione Sovietica la cui sfida “rivoluzionaria” – ovvero frontale e attuata in tutte le dimensioni – agli ordini guidati dalle potenze anglo-sassoni si concluse in un’immensa catastrofe. Sebbene l’impasse militare degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan e la crisi economico-finanziaria del 2007/2008 fossero stati considerati come indicatori dell’intervenuta instabilità degli assetti internazionali del post-Guerra fredda e l’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2012 come un acceleratore del revisionismo cinese, la politica estera del “Dragone” negli anni successivi appariva ancora ispirata al suggerimento di Deng Xiaoping «mantieni il profilo basso e aspetta il tuo tempo». La RPC, infatti, è sembrata evitare accuratamente una competizione con gli USA sul modello della Guerra fredda, mantenendo le sue azioni sempre al di sotto di una certa soglia di scontro (come la sostanziale astensione dall’utilizzo degli strumenti militari o la riduzione della deterrenza nucleare all’incerta assicurazione di un second strike).

Alla Casa Bianca è generalmente prevalsa questa percezione della controparte, come la National Security Strategy del 2017 – quella firmata da Donald Trump e che per la prima volta accusa pubblicamente la Cina di “revisionismo” – è intervenuta a confermare. Nel documento strategico, d’altronde, si parla di una sfida da parte cinese – e russa – al potere e agli interessi degli Stati Uniti. Tuttavia, la RPC viene identificata come la principale minaccia nella dimensione economica, mentre in quella militare il governo americano ne parla in questi termini solo nel medio-lungo termine. Inoltre, il documento nulla dice sulla sfida cinese ai modelli e ai valori occidentali, così come rimane su un livello di analisi prevalentemente regionale delle sue politiche revisioniste.

L’emergenza COVID-19 potrebbe – sottolineo, potrebbe – costituire un punto di svolta in questo senso, ovvero un passaggio da una sfida di tipo “incrementale” o “indiretta” a alla competizione aperta. Dal punto di vista di Pechino, infatti, l’attuale crisi ha agito come uno stress test nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati. Anzitutto, ha dimostrato la fragilità delle economie occidentali, che hanno registrato i maggiori crolli di borsa dal 1987 e probabilmente patiranno molto più di quanto ci si aspetti nei prossimi mesi/anni come conseguenza della chiusura di centinaia (o, purtroppo, migliaia?) di imprese, della rovina di tanti liberi professionisti e dell’aumento esponenziale dell’intervento statale nell’economia.
In secondo luogo, ha fatto registrare l’incertezza degli Stati Uniti di voler ribadire la loro volontà “di guida” dell’ordine internazionale. Oltre ai messaggi di solidarietà di rito, Washington non fatto molto altro per combattere il contrasto del virus nel mondo (o, meglio, ha fatto meno di quello che ci si aspetterebbe da una potenza-leader). E anche quando ha compiuti gesti concreti – si pensi all’ospedale da campo recentemente montato a Cremona – lo ha comunicato il minimo indispensabile, probabilmente per evitare di far circolare in patria la percezione di un presidente intento a spendere il denaro dei taxpayer americani all’estero in un anno elettorale.

Inoltre, ha esasperato le contraddizioni interne a organizzazioni-cardine dell’ordine liberale come l’Unione Europea. Questa ha dimostrato scarsa efficienza al suo primo grande appuntamento con la storia, confermando che il livello di azione degli Stati resta decisivo per la sicurezza dei cittadini (si noti, un tipo di sicurezza che poco ha a che fare con quella militare). Il blocco delle vendite di mascherine e di altri materiali sanitari tra Paesi membri, l’assenza di un protocollo comune con cui trattare l’emergenza, la sospensione di Schengen e il comportamento irresponsabile di Christine Lagarde – ricordiamolo, titolare del perno intorno a cui ruota il processo di integrazione europea – rischiano di lasciare un segno indelebile nella memoria collettiva degli europei, che potrebbe provocare la radicalizzazione dei partiti sovranisti e lo spostamento sulle loro attuali posizioni di alcune forze politiche moderate.
Infine, l’emergenza Coronavirus ha offerto a Pechino l’occasione di verificare su larga sala la sua capacità di contro-narrazione. E, dal suo punto di osservazione, i risultati sono stati più che positivi. La RPC, infatti, ha visto crescere il suo consenso globale nelle ultime settimane come mai avrebbe potuto immaginare solo a inizio marzo. Non crediamo certamente di offrire ai nostri lettori uno scoop rilevando che sempre più persone – in Italia, come all’estero – non solo non sono più convinte che il Coronavirus arrivi da Wuhan (non a caso Trump non perde mai l’occasione per definirlo Chinese virus) ma, grazie a un’accurata opera di disinformazione attuata scatenando troll e media compiacenti, cominciano a pensare che questo sia stato creato in qualche laboratorio occidentale (meglio se “amerikano”) per piegare l’irresistibile ascesa cinese, o sia stato sfruttato da Washington per un fantomatico sbarco in Europa (o, almeno, in questi termini ne ha parlato sui social l’esercito dei troll in riferimento all’esercitazione NATO Defender Europe 2020).

Tale dato non è solo preoccupante in quanto rischia di contribuire al declino del primato americano (le egemonie sono per definizione transitorie), ma anche perché rafforza l’ascesa internazionale di un regime totalitario, con tutte le conseguenze sia in termini di esercizio del potere e controllo sugli altri Paesi, che in quelli di esportazione strisciante di un modello antitetico a quello della liberal-democrazia. Purtroppo, l’impressione è che i politici italiani – come molti loro colleghi europei – non abbiano ancora avuto il tempo, la volontà o le capacità per riflettere sul fatto che decisioni prese in momenti “critici” determinano conseguenze di lungo periodo che possono rivelarsi esiziali per il destino di una nazione. La speranza è che, semmai si dovesse realmente concretizzare l’incubo di una nuova competizione bipolare (stavolta USA-RPC), l’Italia non scelga di schierarsi dalla parte sbagliata.

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