Quando interviene una crisi, il mondo che riemerge alla sua conclusione non è mai quello che si conosceva prima. I momenti critici, d’altronde, pongono persone, Stati o qualsiasi tipo di organizzazione di fronte un’alternativa tra la vita e la morte, il successo e la sconfitta, la guerra e la pace. Scrive Alessandro Colombo, nel suo Tempi decisivi, che le crisi sono fasi di distorsione del tipo e dell’intensità dell’interazione tra avversari, durante le quali i soggetti coinvolti percepiscono una minaccia ai propri valori fondamentali, sono consapevoli di dover rispondere in un tempo limitato e sanno che il proprio destino dipende dalle scelte che vengono compiute in questo momento.
Le generazioni più anziane – per intenderci quelle degli over-65, hanno vissuto consapevolmente la crisi che negli anni Settanta pose in questione lo stile di vita e il primato politico, economico e culturale della “nostra parte di mondo”. Il riferimento, ovviamente, è agli eventi che si consumarono tra la fine del sistema di Bretton Woods (1971), la crisi energetica seguita alla Guerra dello Yom Kippur (1973), il definitivo ritiro americano dal Vietnam (1975) e la firma di quegli accordi di Helsinki (1975) che – si ricordi – nell’immediato sembrarono un successo dell’URSS e solo ex post se ne comprese il potenziale devastante per la tenuta del campo avversario.
L’essenza del concetto di crisi così come del caso storico qui riportati, invece, risultano più problematici da decifrare per le generazioni nate e cresciute nel mondo occidentale dalla seconda metà degli anni Sessanta. E non perché queste – a cui appartiene anche chi scrive – non abbiano vissuto momenti critici, ma perché la nostra esperienza è stata diversa da quelle del passato. Faccio qui riferimento alle due principali crisi degli ultimi 50 anni, quella del 1989-1991 e quella del 2007-2008.
La prima si abbatté sull’ordine bipolare, determinando un mutamento sistemico in termini politici. Nonostante ciò fu vissuta spensieratamente nella nostra parte di mondo, anche se non fu esattamente un “pranzo di gala” per quanti vivevano nei Paesi del blocco comunista. La nostra “prima volta” con una crisi, quindi, ci ha indotto ad attribuire a tale concetto delle sfumature implicitamente positive. Infatti, abbiamo finito col percepire le crisi come trampolini di lancio verso un futuro più sicuro e con più benessere – insomma migliore – dove i cattivi (gli altri) vengono sconfitti e i buoni (noi) trionfano.
La seconda crisi in cui ci siamo imbattuti, quella del 2007-2008, ha alimentato un altro genere di distorsione. Il problema di quest’ultima è che se molto si è dibattuto della sua natura economico-finanziaria e tanti di noi si sono scontrati con i suoi disastrosi effetti sul mondo lavorativo, le sue conseguenze politiche su scala globale sono rimaste sostanzialmente in un cono d’ombra (fatta eccezione del dibattito tra esperti e professionisti della politica internazionale). Gli eventi di circa un decennio fa, infatti, hanno cominciato a erodere gli equilibri emersi dalle ceneri della Guerra fredda e, in particolare, la leadership americana. A contribuire all’inconsapevolezza generale sul processo in corso è stata la sua mancata associazione con un evento “maggiore” – come una guerra o il collasso di una superpotenza – e la sua natura “strisciante”, lenta e non unidirezionale (mai come in questo caso sembra impossibile prevederne l’esito).
Al dato esperienziale che ci ha portati ad attribuire alla crisi una connotazione – se non positiva – quanto meno politicamente neutra, si è associato il dato cognitivo che ci ha resi avvezzi ad un suo sovra-utilizzo. L’assenza di una coscienza chiara di cosa significhi e di cosa implichi l’intervento di una crisi, infatti, ci ha indotti a classificare come tale qualsiasi tensione – più o meno intensa – che ha colpito la sfera politica internazionale o interna durante la nostra vita. L’effetto finale del continuo ricorso a tale concetto ha finito col saturarlo poiché, come scrive sempre Colombo, quando «tutto è crisi, nulla è crisi».
È probabilmente per tale ragione che in questi concitati giorni non ce la facciamo a definire semplicemente come “crisi” – che da sanitaria è divenuta anche politica – l’emergenza coronavirus. Abbiamo, invece, disperatamente bisogno di trovarle un altro appellativo, il cui più ricorrente – e capace di solleticare il nostro ego – è quello di “guerra”. Al netto dell’encomiabile sacrificio del personale medico-sanitario, tuttavia, ho paura che un ragazzo del ’99 storcerebbe il naso su questo paragone e scambierebbe volentieri la sua trincea con quella composta da divani, televisori e device di ogni genere su cui si trova attualmente attestato il 99% degli italiani (a chi non ne fosse convinto, ma non avesse tempo di leggere i diari di Remarque o Jünger, si suggerisce la più agile visione della recente pellicola 1917 di Sam Mendes).
Tale confusione concettuale, di fronte agli eventi che si rincorrono di giorno in giorno, rischia di disorientare tutti noi quali parte di una comunità politica che si auto-regola democraticamente e, di riflesso, la classe dirigente del Paese. Ed essere disorientati in questo momento significa non comprendere quali sono state le origini del coronavirus e della sua diffusione incontrollata, a quali problemi è necessario dare priorità in questa fase e, soprattutto, il peso che avranno le scelte compiute ora e le loro ripercussioni nel medio-lungo periodo sulla vita politica dell’Italia, sia per quanto riguarda la sua sfera interna, che per il suo collocamento e il suo prestigio nella sfera internazionale.
Gabriele Natalizia,
Coordinatore di Geopolitica.info e Ricercatore di Scienza Politica di Sapienza Università di Roma