Il 5 agosto 2019 il governo indiano guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP) di Narendra Modi, ha avviato il processo di abrogazione dell’applicazione dell’articolo 370 della Costituzione, che dal 1950 conferisce allo stato del Jammu e Kashmir (J&K) una semi-autonomia politica.
Questa mossa, fortemente significativa sia nel simbolismo che nella sostanza, si è esplicata in un ordine presidenziale di abrogazione dell’articolo 370 senza alcuna consultazione preventiva con l’assemblea parlamentare del Jammu e Kashmir, come previsto dall’articolo stesso.
La decisione è stata quindi resa nota da parte del ministro degli Interni Amit Shah attraverso una dichiarazione approvata dalla Rajya Sabha (Consiglio degli Stati, la Camera Alta del Parlamento Federale indiano).
Così facendo il BJP è riuscito finalmente a raggiungere uno degli obiettivi di governo presente già nel suo programma elettorale del 2014, quando per la prima volta salì alla guida del paese. Ci si riferisce cioè alla riorganizzazione dell’assetto giuridico del Jammu e Kashmir attraverso l’abrogazione dell’articolo 370, annullando di fatto la semi-autonomia della quale ha goduto il Jammu e Kashmir per più di settant’anni. A seguito di questa decisione il Kashmir perderà lo status di stato venendo diviso in due union territories. Da questa divisione avranno origine lo union territory del Jammu-Kashmir dotato di una propria assemblea legislativa e lo union territory del Ladakh, senza assemblea legislativa.
Uno union territory rappresenta una regione governata direttamente dal governo centrale di New Delhi, a differenza degli stati dotati di un proprio governo.
Secondo la proposta del governo indiano l’attuale stato del Jammu e Kashmir verrà sostituito dai due union territories di Jammu e Kashmir e Ladakh
La decisione del 5 agosto è stata preceduta da misure eccezionali imposte nella regione dal governo centrale che hanno sortito un aumento generale del livello di tensione.
Queste hanno interessato principalmente l’ordine di evacuazione per turisti e lavoratori stranieri presenti, il divieto di assembramento per i residenti, una limitazione delle comunicazioni attraverso la sospensione dei servizi telefonici e internet e l’aumento delle forze armate presenti nella regione. Nello specifico 38.000 nuove unità si sono aggiunte al mezzo milione già presenti.
Inoltre, la dichiarazione di Amit Shah a New Delhi è stata preceduta ventiquattr’ore prima dall’arresto preventivo dei principali leader politici in Kashmir. Ciò non ha riguardato solo gli appartenenti a partiti politici di opposizione e sostenitori di una politica separatista, ma anche i membri di partiti filogovernativi quali National Conference e Peoples Democratic Party, tra i quali i nomi più celebri sono stati quelli di Omar Abdullah e Mehbooba Mufti.
Gli antefatti
Fino ad oggi lo stato del Jammu e Kashmir aveva goduto di uno speciale rapporto costituzionale con l’Unione Indiana a causa delle circostanze in cui il suo ultimo Maharaja Hari Singh, sovrano del Kashmir, aderì all’India nel 1947, ponendo fine all’indipendenza dello stato principesco. La richiesta di adesione fu immediatamente accettata dal primo ministro indiano Nehru e da Lord Mountbatten, ultimo Viceré dell’India e primo Governatore Generale del paese nel periodo di transizione seguito all’indipendenza indiana.
Egli presentò formale richiesta di adesione a seguito di una concreta minaccia alla sua integrità, in quanto truppe irregolari pashtun al servizio del neonato stato pakistano attraversarono tra settembre e ottobre 1947 il confine con lo stato principesco del Kashmir. Il Maharaja presentò formale richiesta di aiuto all’India, la quale condizionò il suo aiuto all’adesione del suo regno all’Unione Indiana. Hari Singh tuttavia, pur accettando riuscì ad ottenere per il territorio e il popolo kashmiro una serie di garanzie di natura politica e demografica. Nel 1954 l’accordo siglato da Singh, Nehru e Mountbatten riguardo l’assetto politico del Kashmir e le garanzie per i suoi residenti venne ufficializzato nella Costituzione Indiana nell’articolo 370.
L’articolo 370 della Costituzione ha garantito uno status unico allo stato del Jammu e Kashmir, unico stato indiano a maggioranza musulmana, al quale fu concessa la possibilità di avere una propria costituzione, e stabilendo per i suoi abitanti particolari leggi riguardanti la cittadinanza e i diritti di proprietà.
A sostegno delle garanzie contenute nell’articolo 370 e della sottosezione 35 A in difesa della composizione etnica dello stato, vennero previste pratiche di discriminazione positiva a favore della popolazione locale, tra le quali norme stringenti atte all’ottenimento dello status di residente e il divieto posto ai non-kashmiri di acquistare terreni e proprietà nello stato.1
Lo status di residente venne riconosciuto agli individui stabilmente residenti nel paese alla data del maggio 1944, rendendo poi tale status ereditario anche per i discendenti di questi che avrebbero potuto continuare a beneficiare dello status di residenti permanenti pur non risiedendo effettivamente nel nuovo stato di Jammu e Kashmir.
Inoltre, sulla base di condizioni simili esistenti in altre aree del paese, per lo più riguardanti le aree tribali di Himachal Pradesh, Arunachal Pradesh, Nagaland e isole Andamane e Nicobare, una clausola specifica vincola il parlamento indiano alla consultazione dell’assemblea parlamentare kashmira per l’applicazione di qualsiasi legge in questo territorio, ad eccezione di quelle riguardanti i settori della difesa, degli affari esteri, e delle comunicazioni.
Originariamente l’articolo 370 sarebbe dovuto servire solo come misura temporanea nella regolazione dei rapporti tra il nuovo stato del Jammu e Kashmir e l’India. Sebbene dalla metà degli anni ’50 ci furono diversi tentativi volti a una maggiore integrazione del Jammu e Kashmir, il particolare status dell’ex stato principesco regolato dall’articolo 370 fu confermato e rafforzato. Ciò fu soprattutto il risultato del sapiente lavoro politico di Sheikh Abdullah, secondo Primo Ministro del Jammu e Kashmir, che ebbe il merito di rendere implicitamente permanente il carattere temporaneo e transitorio dell’articolo 370, mediante un accordo siglato con il Primo Ministro indiano Indira Gandhi nel 1975 in cambio della rinuncia kashmira a future richieste di plebisciti in chiave indipendentista. Venne altresì confermata la non abrogabilità dell’articolo 370 su decisione unilaterale del legislatore indiano, in mancanza di una consultazione preventiva con l’assemblea parlamentare kashmira e l’accettazione di questa. Il carattere permanente dell’articolo 370 venne poi ribadito e confermato da diverse decisioni sia dei tribunali che dell’Alta Corte del Jammu e Kashmir.
Si teme perciò che l’abrogazione delle garanzie contenute dall’articolo 370 possa provocare un’ondata di squilibri etnici, demografici e religiosi in questo territorio, con analogie evidenti tra la politica che New Delhi vorrebbe perseguire in Jammu e Kashmir e l’operato di Pechino in Xinjiang.
Conseguenze geopolitiche a livello regionale
I tempi e le dinamiche delle misure adottate il 5 agosto sono stati indubbiamente influenzati da questioni di carattere regionale. Queste hanno riguardato anzitutto la situazione di crisi non ancora risolta con il Pakistan riguardante il supporto ufficioso da parte di Islamabad a gruppi jihadisti transfrontalieri basati nel Kashmir pakistano (Azad Kashmir) e operanti nel Jammu e Kashmir, e gli sviluppi del crescente disimpegno statunitense in Afghanistan. Con le dimissioni del segretario alla Difesa americano Jim Mattis nel dicembre 2018 il dibattito all’interno dell’amministrazione Trump riguardo il ritiro delle truppe presenti in Afghanistan è giunto alla sua conclusione, decidendo un graduale e completo ritiro dall’Afghanistan. Questa decisione ha fatto letteralmente suonare i campanelli d’allarme a New Delhi. I probabili scenari di fronte ai quali sarà posta l’India nell’immediato futuro, e scaturiti da un rinnovato vigore talebano in Afghanistan e una nuova collaborazione di questi con il Pakistan, nonostante le rassicurazioni del suo nuovo Primo Ministro Imran Khan, hanno obbligato New Delhi a un cambiamento di rotta per rafforzare la sua frontiera settentrionale ritenuta non del tutto sicura e prevenire una massiccia infiltrazione jihadista, come già accaduto nei primi anni ‘90. In quegli anni infatti, il ritiro dall’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica coincise con un‘esplosione del terrore nel Kashmir.
Dopo aver sconfitto i russi ed essere sopravvissuti agli americani, il Kashmir rappresenterebbe probabilmente il prossimo obiettivo per i talebani.
In questo scenario la ritrovata vicinanza tra Stati Uniti e Pakistan ha ulteriormente allarmato l’India. In particolare, Donald Trump avrebbe offerto a Imran Khan il ruolo di mediatore con i talebani nel processo di pace dell’Afghanistan in cambio della ripresa degli aiuti economici americani al Pakistan sospesi dallo stesso Trump nel 2018 accusando il Pakistan di doppio gioco nella guerra al terrorismo, e della disponibilità da parte di Trump di fungere da mediatore tra Pakistan e India sulla questione del Kashmir. Tutto ciò ha rappresentato una crescita esponenziale delle apprensioni indiane in fatto di sicurezza, mentre in Kashmir è coinciso con una ripresa delle tensioni lungo il confine con il Pakistan, la cosiddetta Line of Control, rendendo necessaria una rapida contromossa indiana.
Piuttosto che monitorare lo svolgersi degli eventi e reagire a un potenziale ritorno dei talebani in Afghanistan, prospettiva che, se Trump dovesse attenersi alle sue scadenze per il disimpegno in Afghanistan, sarebbe quasi inevitabile, il governo indiano ha cercato di anticipare le minacce e prepararsi al sopraggiungere degli eventi.