“C’è grande confusione sotto il cielo: dunque la situazione è eccellente” (Mao). L’attentato di Barcellona risuona in tutta Europa come l’ennesimo invito a un dibattito che tanto tra la gente comune quanto tra le élite politico-culturali del continente stenta a prendere quota. Serve discutere delle minacce e delle opportunità che il ventunesimo secolo che ci sta offrendo giocando a carte scoperte, ponendo al centro parole d’ordine come federazione europea, immigrazione, terrorismo, rete virtuale, mettendo da parte ogni tentazione di edulcorare, o peggio eludere, un’analisi schietta di tali fenomeni per il rischio di ricadute elettorali o – per ciò che attiene ciascuno di noi – per la paura del giudizio delle proprie idee.
Per quanto attiene all’Europa si avverte evidente la necessità di una valutazione di lungo periodo sulla reale possibilità di portare a compimento il progetto federale proposto a mezzo miliardo di cittadini nei primi anni Novanta, soprattutto a fronte del terremoto Brexit. L’Europa è un’espressione geografica, parafrasando Metternich, ma non ne conosciamo i confini o tendiamo ad ignorarli. Eppure è l’evidenza della mappa a suggerirci che specularmente alle acque pacificate dell’Atlantico e dell’Artico si apre un limes poroso che dal golfo di Finlandia corre irregolare tra i paesi dello spazio post-sovietico fino al mar Nero, toccando ovviamente la Turchia e da lì tutto l’arco della civiltà arabo-musulmana che si affaccia sul Mediterraneo tra la Siria e il Marocco. Quali relazioni e aspettative possiamo coltivare in tali spazi? La definizione limpida della visione europea su simili interrogativi è propedeutica alla prosecuzione del disegno di Maastricht, al di là di qualunque variabile economica, commerciale e finanziaria si voglia tirare in ballo. Del resto, sarebbe del tutto inconcepibile chiedere alle leadership politiche di (per ora) ventotto Stati di gettare il cuore oltre l’ostacolo degli interessi particolari senza offrire un canovaccio credibile del ruolo, dei confini e delle prospettive che la super-entità statale di prefigge per il futuro.
Se è vero e incontrovertibile che la storia continentale ha visto negli ultimi quattro secoli la progressiva marginalizzazione del Mediterraneo in favore dell’ascesa dell’Europa renana, è allo stesso tempo innegabile che quello spazio geografico e umano sopravvive e si impone oggi al centro delle cronache quotidiane per l’esodo ininterrotto di genti che lo attraversano da sud verso nord. Il mare chiuso che fu dei romani non si presta a recinzioni, nel presente come nel passato. Serve allora discutere, come detto, della natura istituzionale del rapporto che si intende costruire con i governi rivieraschi, ma allo stesso tempo non sembra possibile esimersi dal domandarsi quanto l’osmosi umana in corso possa essere disciplinata e quanto questa rappresenti un pericolo o un valore per chi vive sulle sponde settentrionali del mare. Per far ciò sarà necessario guardarsi allo specchio e con occhi aperti valutare schiettamente le tendenze stabili della demografia, dell’economia e del mercato del lavoro che caratterizzano le società europee e come o quanto positivamente o negativamente queste vengano a modificarsi con l’arrivo delle genti del Sud. Non diversamente servirà traslare gli stessi quesiti sul piano della capacità europea di assorbire culturalmente il potente innesto di popolazioni senza snaturare i maggiori valori filosofico-politici prodotti a partire dall’età moderna: laicità delle istituzioni, democrazia rappresentativa, tutto il complesso apparato di libertà, diritti e doveri individuali e collettivi cristallizzati dall’Ottocento ad oggi. Per riportarci sul binario del concreto, basterebbe forse iniziare tale ricerca dalle parole del neo-eletto Presidente francese e chiedersi quanto sia effettivamente possibile sposare una distinzione netta tra rifugiati politici e migranti economici, se simili categorie trovino davvero riscontro e validità nella realtà e se da ciò sia possibile edificare una politica comune europea sui flussi migratori.
Si connette gioco forza a tali domande anche una seria discussione sul terrorismo di matrice islamica che ci riporta ai tragici eventi spagnoli di questo agosto. È possibile controllare e sradicare un fenomeno transnazionale con strumenti localizzati? È possibile fare a meno di un intelligence europea propriamente detta se l’avversario che ci si prefigge di combattere non riconosce in Europa distinzioni nazionali, muovendosi da un paese all’altro, sfruttando le asimmetrie di informazione tra i governi del Continente? Al contempo, è possibile che il pericolo rappresentato dalla radicalizzazione delle seconde e delle terze generazioni di migranti possa essere affrontato con ventotto diverse politiche di integrazione da cui è lecito attendersi nel medio termine ventotto diversi risultati sociali, culturali, economici e politici? E in conclusione, è possibile accettare che una manciata di visionari pionieri del web, titolari e fondatori dei più potenti attori economici presenti nel mercato globalizzato offrano una per loro remunerativa piattaforma di libera comunicazione senza affiancare una – sempre per loro – necessariamente costosa strategia di controllo che impedisca a fanatismi ed estremismi di organizzarsi e moltiplicarsi?
In un biennio che ha visto o sta per vedere i cittadini dei maggiori paesi d’Europa recarsi alle urne per rinnovare le proprie istituzioni rappresentative appare quasi surreale la mancanza di una spinta all’apertura di un vasto – vastissimo – tavolo di dialogo comune che riesca a quantomeno provi a dare soluzioni a questi quesiti. Da tali tragedie è lecito e doveroso attendersi una reazione, tradurre quanto accaduto in un’opportunità. In fondo, la fiera folla di Barcellona riunita per commemorare i propri morti, involontaria portavoce del continente, non sta chiedendo altro.