Da sempre regione di importanza strategica, contesa dagli imperi francese, inglese ed italiano, teatro di rivalità geopolitica tra Stati Uniti e URSS durante la guerra fredda, il Corno d’Africa si trova oggi nelle mire espansionistiche di Cina, Russia e USA, nonché di potenze regionali (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia) sempre più assertive.
Le opinioni espresse nell’articolo non rispecchiano necessariamente quelle dell’Agenzia Italia per la Cooperazione allo Sviluppo.
Il Corno d’Africa: dimensione economica
Il Corno d’Africa è diventato, negli ultimi anni, un polo di forte attrazione economica non solo per la sua posizione geografica ma anche per l’impetuosa crescita etiope. Priva di sbocchi sul mare e fortemente dipendente dalle infrastrutture portuali del vicino Gibuti, l’Etiopia sta cercando di diversificare i suoi punti di accesso marittimi. Per tale motivo, nel 2018, il paese ha deciso di acquisire il 19% del porto di Berbera, nel vicino Somaliland, associandosi alla compagnia emiratina Dubai Port (DP) World. Quest’ultima, presente in Gibuti sin dal 2000, è stata espulsa nel 2018, in seguito a forti tensioni diplomatiche con gli EAU. China Merchants (holding basata ad Hong Kong) è subentrata alla compagnia emiratina nella gestione del terminal portuale di Doraleh rafforzando il posizionamento del gigante cinese sulle infrastrutture gibutiane. L’impresa di stato cinese possiede già il 23% della società Port de Djibouti SA che supervisiona le attività portuali del paese ed ha contribuito a finanziare l’immenso porto polivalente di Doraleh contiguo alla base militare cinese. La DP World ha così deciso di ripiegare sui porti di Berbera (Somaliland) e Bosaso (Puntland).
Nel 2018, l’ex-presidente della Somalia, Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo” aveva promesso al primo ministro etiope, Abiy Ahmed, l’accesso a quattro porti somali. Tra questi, figurava quello di Hobyo, nella regione centrale del Galmudug. Nel 2019, il Qatar, vicino all’ex-presidente Farmajo, ne aveva annunciato il rinnovamento. L’anno precedente, Doha aveva anche ottenuto il rinnovamento del porto di Suakin, in Sudan, ma con la caduta di Al Bashir, nel 2019, e l’installazione della giunta militare, vicina ad Abu Dhabi e Riad, il progetto è andato in fumo. Forti del sostegno dato alla giunta, gli EAU investiranno 6 miliardi di dollari nel paese, di cui 4 per la costruzione di un nuovo porto a nord di Port Sudan. Trecento milioni saranno invece canalizzati verso la banca centrale sudanese per dare man forte ai militari, messi sotto pressione dalla sospensione parziale degli aiuti finanziari occidentali, seguita al colpo di stato dell’ottobre 2021.
Il Corno d’Africa: dimensione militare
Da un punto di vista militare, la Cina ha inaugurato, nel 2017, la sua prima base sul continente, a Gibuti, creando forti tensioni con gli USA, ugualmente presenti, dal 2002, nella base di Camp Lemonnier. A questi si affianca l’Unione Europea, attiva dal 2008 nel paese con l’operazione anti-pirateria “Atalanta”. Dal canto loro, Arabia Saudita ed EAU hanno cercato di stabilirsi nella regione per facilitare le operazioni militari in Yemen. Inizialmente interessate a Gibuti, le due monarchie del Golfo hanno successivamente deciso di utilizzare il porto di Assab, in Eritrea, come base militare. Gli EAU, inoltre, hanno una presenza ormai stabile sull’isola yemenita di Socotra.
Anche la Turchia, a lungo rivale dell’Arabia Saudita e degli EAU, è presente nell’area. Nel 2017, Ankara ha inaugurato una base militare a Mogadiscio dove imprese turche gestiscono il porto e l’aeroporto della capitale. Nel 2018, Riad e Abu Dhabi hanno guardato con forte preoccupazione l’ipotesi di stabilire una base militare turca nel porto di Suakin, in Sudan, ipotesi questa svanita con la caduta di Al Bashir. D’altra parte, la Russia si è dimostrata ancora favorevole a costruire un’ulteriore base militare a Port Sudan: la vicinanza del regime russo al numero due di Khartoum, Mohamed Hamdan Dagalo Hemedti, è fondamentale per Mosca per continuare su tale strada.
L’influenza dei paesi del Golfo sul Corno d’Africa
Sebbene oggi meno marcate, le rivalità tra sauditi e iraniani e le tensioni tra Qatar e i vicini del Golfo, si sono replicate nel Corno d’Africa. L’influenza iraniana nella regione è stata fortemente limitata. Nel 2016, il Sudan, la Somalia e Gibuti, hanno chiuso le loro ambasciate a Teheran in seguito alla rottura dei legami diplomatici tra Iran e Arabia Saudita. In un contesto nel quale Riad è sempre più assertiva, il suo peso politico ed economico le ha permesso di obbligare i paesi della regione ad allinearsi alle sue posizioni. Inoltre, nel giugno 2017, i paesi dell’autoproclamato quartetto “anti-terrorista” (Arabia Saudita, Bahrein, EAU ed Egitto) hanno cercato crescenti consensi nel continente africano per cercare di isolare il Qatar, secondo loro troppo vicino ai movimenti islamisti e all’Iran. L’Eritrea si è de facto allineata sulle posizioni di Riad e Abu Dhabi, e Gibuti è stato l’unico paese della regione che ha ufficialmente interrotto i suoi legami diplomatici con Doha. Dal canto loro, Somalia e Sudan si sono dichiarati neutrali per i forti legami con entrambi i campi. A Mogadiscio, l’ex-presidente Farmajo fu eletto anche con il sostegno finanziario di Doha. Questa neutralità, mal accolta ad Abu Dhabi, si è progressivamente tradotta in una crisi diplomatica aperta, portando gli EAU ad avvicinarsi al Somaliland (che chiede un riconoscimento internazionale) e agli stati federali somali. Questi ultimi hanno tutti sostenuto l’embargo messo in piedi contro il Qatar andando contro quanto stabilito dal governo federale. Con l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud alla presidenza della repubblica c’è stato un riavvicinamento ad Abu Dhabi, fonte di non poche preoccupazioni per il Qatar.
Tentativo di “Pax Arabica”?
Tali rivalità extra-regionali si aggiungono alla già precaria situazione nel Corno d’Africa. La presenza e le iniziative dei paesi del Golfo e di quelle turche sono state fortemente criticate per il loro carattere destabilizzante. In Somalia, la rivalità Qatar-EAU ha esacerbato le tensioni tra il governo federale e gli stati membri. E’ in tale contesto che Arabia Saudita ed EAU vogliono accreditarsi, verso i paesi della regione, come attori costruttivi e mediatori capaci di risolvere le questioni spinose che attanagliano il Corno. Nel 2018, l’Arabia Saudita e gli emirati hanno aiutato (finanziariamente) l’Eritrea e l’Etiopia a concludere un accordo di pace “storico”. Più recentemente, gli EAU hanno offerto i loro buoni uffici per cercare di mediare nel conflitto sorto tra Sudan ed Etiopia nella zona frontaliera di Al Fashaga, che la guerra nel Tigrai ha riacceso, nonché tra Egitto ed Etiopia sull’annosa questione della diga del Rinascimento (senza peraltro alcun risultato tangibile).
A gennaio 2020, i paesi rivieraschi del Mar Rosso e del Golfo di Aden (ad eccezione di Israele) hanno creato il Consiglio degli Stati costieri arabi ed africani del Mar Rosso e del Golfo di Aden. I suoi membri (Arabia Saudita, Egitto, Eritrea, Gibuti, Giordania, Somalia, Sudan e Yemen) hanno dichiarato di volere una maggiore cooperazione sul piano politico, economico ed ambientale. L’operatività di tale “blocco” afro-arabo rischia tuttavia di non concretizzarsi. La sua carta costitutiva resta ancora incompiuta e i dettagli sul suo funzionamento restano incerti. Numerosi ostacoli limitano la sua capacità di azione, in primis la questione della “leadership” del Consiglio, rivendicata sia dal Cairo che da Riad. Quali che siano gli obiettivi, a tali condizioni, tutte le iniziative istituzionali sono volte al fallimento poiché le rivalità locali ed extra-regionali costituiscono degli ostacoli oggettivi all’emergenza di un ordine politico e securitario cooperativo tra le due sponde del Mar Rosso.