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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaConversioni, indottrinamenti e politiche di deradicalizzazione

Conversioni, indottrinamenti e politiche di deradicalizzazione

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Il caso di Silvia Aisha Romano, convertitasi all’islam in condizione di prigionia, ha (ri)avviato il dibattito sulle pratiche di brainwash attuate dai gruppi fondamentalisti attraverso complesse azioni proselitismo. A prescindere dalle motivazioni che possano aver spinto Silvia “Aisha” alla conversione, risulta evidente la necessità di affiancare figure che si curino della salubrità e del benessere fisici e mentali della giovane ragazza, presumibilmente in una fase molto delicata a causa del trauma subìto a seguito del rapimento per mano di affiliati di al-Shabaab – gruppo fondamentalista fautore di innumerevoli attentati e atti terroristici di alto livello – uniche figure con cui pare abbia interagito negli ultimi 18 mesi.

E’ interessante, però, ragionare anche su delle distinzioni che, nell’opinione pubblica sembrano non essere chiare. Infatti, molto frequentemente si assiste alla sovrapposizione di terminologie e concetti relativi a religione, fondamentalismo, radicalizzazione e indottrinamento, che andrebbero chiariti. 

Lungi dal voler collocare Silvia Aisha in una qualunque di queste categorie, si potrebbe comunque cogliere l’occasione per spiegare i concetti e proporre soluzioni utili per coloro che sono addentro al dibattito relativo al fondamentalismo islamico.

La ricerca empirica ha dimostrato che l’adesione all’islam radicale non conduce automaticamente ad atti terroristici, anzi, tra i fondamentalisti, è solo una minoranza a decidere di imbracciare le armi contro i “miscredenti”. 

L’indottrinamento è infatti un processo multi-fattoriale, alla cui base vi sono, quindi, fattori socio-ambientali, psicologici, pedagogici e sociali.

Sussiste, di fatto, un’enorme differenza tra la radicalizzazione (non violenta) e la radicalizzazione violenta (o ultra-radicalizzazione), intesa come militanza aggressiva, di tipo estremistico/terroristico. Questa distinzione non sempre chiara né sufficientemente sottolineata nel dibattito mediatico e geopolitico, è fondamentale, soprattutto alla luce di un corretto lavoro di prevenzione della minaccia terroristica che eviti di cadere nella trappola dei “falsi positivi”. Le accuse infondate di coinvolgimento nel terrorismo funzionano spesso, peraltro, come precursori dell’opzione jihadista. Per cui, nonostante il passaggio dall’integralismo al jihadismo non sia scontato, non si può escludere che l’integralismo possa rappresentare un terreno fertile per il terrorismo.

Anche la radicalizzazione non violenta dovrebbe essere quindi valutata come un problema per la democrazia, dal momento che l’integralismo si oppone fortemente al principio imprescindibile della laicità dello Stato. 

Pertanto risulterebbe utile, in una società come la nostra, prendere in considerazione l’idea di avviare percorsi, da una parte, di prevenzione, dall’altra volti a sanare chi è già radicalizzato.

Con riferimento alla prima tipologia, un’idea potrebbe essere quella di promuovere percorsi educativi e pedagogici finalizzati a far assumere consapevolezza della molteplicità dei punti di vista al fine di raggiungere la maturità necessaria per essere in grado di agire in maniera responsabile nella complessità del reale. 

Un primo scopo educativo fondamentale consisterebbe nell’aiutare a comprendere quali cause endogene ed esogene possono essere attrattive nella propaganda jihadista, che si fonda su espedienti comunicativi molto diversificati. Insegnando a interpretare i messaggi trasmessi attraverso le campagne di comunicazione, diventa più facile educare alla comprensione del comportamento dei terroristi, non per giustificarne le azioni, bensì per riuscire ad affrontare i problemi che conseguono ad esse in maniera responsabile e libera da stereotipi. 

Un secondo fine consiste nell’educare a comprendere che, in un sistema globale complesso, non si possono accettare semplificazioni della realtà in nessun senso, né sposando totalmente una causa, né rifiutandola ciecamente. Educare quindi a controllare l’istinto avversativo che si attiva nei cittadini europei di fronte a provocazioni implicite nel linguaggio e nei messaggi trasmessi dalla propaganda jihadista, eventualmente studiando strategie preventive fondate sulla complessità e quindi sulla ricerca di alternative, piuttosto che sull’opposizione radicale e sterile. 

Ciò che si realizza in questo modo è un’educazione alla cittadinanza planetaria, ed è proprio per questo l’educazione, in particolare quella geografica, dovrebbe aprirsi a una dimensione interdisciplinare cogliendo la sfida decisiva dell’educazione contemporanea: oggi più che mai l’orizzonte disciplinare di ogni pratica educativa deve necessariamente estendersi nello spazio e nel tempo, coinvolgendo da un lato i problemi e i processi di portata globale, dall’altro le radici evolutive della specie umana, nelle quali si celano domande e risposte essenziali per il nostro presente e il nostro futuro. 

C’è poi un secondo tipo di percorso, relativo alle pratiche di de-radicalizzazione o “disengagement” ovvero di disimpegno dal coinvolgimento terroristico. 

La multi-fattorialità che caratterizza la radicalizzazione si riflette altresì nelle pratiche di de-radicalizzazione che possono essere infatti frutto, da un lato, di percorsi biografici personali e di scelte individuali, dall’altro di iniziative dall’alto.

In pratica, si può scegliere di de-radicalizzarsi a seguito di cambiamenti intervenuti nella condizione personale del terrorista (carcerazione, nella maggior parte dei casi), oppure potrebbe succedere che l’ex radicalizzato, pur continuando ad aderire all’ideologia terroristica, smetta di impegnarsi in operazioni terroristiche effettive. La de-radicalizzazione, quindi può verificarsi su vari livelli: si può abbandonare sia l’ideologia che la prassi terroristica in favore di una visione del mondo più democratica e pluralistica, o comunque meno conflittuale; oppure si può abbandonare la prassi ma non l’ideologia terroristica.

Nel caso delle iniziative dall’alto, invece, il radicalizzato viene sottoposto ai cosiddetti exit program,concepiti per favorire il distacco prima e l’abbandono poi dalla e della ideologia (e della prassi) terroristica. 

Sono molti i paesi che hanno proposto e attuato programmi di de-radicalizzazione (tra questi Arabia Saudita, Canada, Danimarca, Francia e Yemen). Gli exit program variano da paese a paese e in base agli obiettivi che si propongono. Possono puntare a un un “disindottrinamento”, modificando sopprimendo l’ideologia. Oppure, possono limitarsi a un “de-reclutamento”, evitando che il radicalizzato nuoccia alla società, inducendolo a rifiutare l’azione violenta senza pretendere la rinuncia ad un’ideologia.

Al momento, il modello di exit program più apprezzato è quello danese elaborato dall’Università di Aarhus in sinergia con forze di polizia, comunità islamiche, psicologi, strutture scolastiche, mediatori culturali, ecc. L’exit program prevede che al radicalizzato venga assegnato un mentor che lo supporti per tutto il percorso.

In Italia non esistono ancora strategie di de-radicalizzazione efficaci, complete e delineate a livello politico. Vi sono però alcuni casi sperimentali di interventi di de-radicalizzazione.

Le criticità connesse agli exit program sono molteplici. Innanzitutto esiste un problema etico di “premialità”: bisogna espandere le misure di welfar di incentivo alla de-radicalizzazione (alloggio, consulenza psicologica, terapia e assistenza medica, aiuto dal punto di vista dell’occupazione o istruzione, mediazione culturale, interazione con un mentor e sostegno economico alla reintegrazione in società) nei confronti di chi ha sposato la radicalizzazione? 

E poi naturalmente il problema relativo al successo. Non si può sapere né stabilire a priori se un soggetto ultra-radicalizzato o in fase di radicalizzazione violenta reagirà positivamente ad un percorso di riabilitazione finché non gli venga offerta la possibilità di sottoporsi al trattamento, ma nella messa a punto di un programma di exit le aspettative vanno dimensionate alla realtà e alla complessità dei fenomeni di radicalizzazione. 

Per concludere, si può ipotizzare un’ultima distinzione, quella tra livelli di radicalizzazione violenta ancora reversibile (per fare qualche esempio, casi di mancata integrazione sociale, economica, etnica) e quelli superiori in cui l’apertura di finestre di dialogo e di recupero risultano molto più complesse. 

In attesa di risultati sicuri sui modelli di exit program, sarà bene sviluppare i succitati interventi di prevenzione alla radicalizzazione, implementando percorsi educativi e pedagogici volti a eludere anticipatamente il contagio estremista. 

Giovanna Zavettieri,
Sultan Qaboos University (Oman) – جامعة السلطان قابوس

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