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TematicheStati Uniti e Nord AmericaCome l’11 settembre ha cambiato le guerre americane

Come l’11 settembre ha cambiato le guerre americane

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La guerra globale al terrorismo ha trasformato il Joint Special Operations Command, l’ente deputato alla condotta delle operazioni speciali congiunte, nel nucleo centrale di un’infallibile rete di agenzie e di comandi interconnessi il cui obiettivo è quello di distruggere le reti terroristiche internazionali. I droni e le forze speciali sono gli strumenti principali con cui vengono condotte queste operazioni.

Articolo precedentemente pubblicato nel quattordicesimo numero della newsletter “A Stelle e Strisce”. Iscriviti qui

La nascita e l’evoluzione del controterrorismo americano

La maggior parte dei media occidentali ha raccontato il ritiro delle truppe americane ed alleate da Kabul dipingendolo come il tragico epilogo della ventennale guerra che ha avuto inizio nell’ottobre del 2001 e si è prolungata fino ad oggi. In realtà, prima di annunciare che la guerra è terminata, coloro che parlano della sua fine dovrebbero fare chiarezza su cosa intendano esattamente con questa affermazione. Tra gli studiosi militari non esiste consenso unanime su cosa si debba intendere oggi con la parola guerra, né su quali siano gli elementi che la determinino. D’altronde, in assenza di una dichiarazione di guerra formale, anche il concetto stesso di pace appare sempre meno chiaro. 

Questa confusione di concetti è ciò che ha permesso al presidente Biden di poter affermare, contestualmente alla dichiarazione della fine della guerra in Afghanistan, che gli Stati Uniti non smetteranno di cercare e di eliminare i terroristi presenti in quel Paese, anche se lo faranno da lontano. Come affermato anche dai vertici militari americani, le operazioni di controterrorismo – che includono, ovviamente, l’eliminazione fisica delle figure chiavi delle reti terroristiche, su un territorio straniero – continueranno, assumendo la configurazione cosiddetta over the horizon (OTH), ovvero saranno condotte a partire da territori anche molto lontani da quello cin cui è situato l’obiettivo. Lo stesso discorso vale per moltissimi altri paesi, non solamente dell’area MENA. Gli Stati Uniti conducono o hanno condotto, negli scorsi 15/20 anni, operazioni di controterrorismo in decine di paesi, tra cui spiccano, oltre l’Afghanistan, lo Yemen, l’Iraq, il Pakistan, la Somalia. Queste operazioni, accuratamente nascoste, vengono condotte quotidianamente. Si pensi solamente che nella notte in cui è stato ucciso Osama bin Laden, nel maggio del 2011, le forze speciali americane basate in Afghanistan hanno condotto altri 12 raid contro importanti obiettivi terroristici, e che quella che ha portato all’eliminazione del capo di al Qaeda era solo una delle circa 2.000 operazioni di questo tipo condotte dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Pakistan negli anni precedenti. 

Questa forma di guerra, da alcuni definita shadow war, è il risultato di un processo di trasformazione di una parte delle forze armate americane, in maniera particolare delle forze speciali, che è stato avviato nel 1979 ma che ha subito una notevole accelerazione con l’attentato terroristico perpetrato da al Qaeda nei confronti degli Stati Uniti l’11 settembre del 2001. 

Nel 1979, il presidente statunitense Jimmy Carter ordinò al Pentagono di condurre un’operazione militare per liberare i cittadini americani sequestrati da alcuni integralisti islamici nell’ambasciata statunitense a Teheran. L’operazione, denominata Eagle Claw, si risolse in un disastro, ma diede avvio ad un importante processo di ristrutturazione delle forze speciali americane. Dopo quell’operazione, infatti, i vertici militari USA diedero vita al Joint Special Operations Command (JSOC), un comando che avrebbe dovuto gestire in maniera congiunta le operazioni speciali americane. Negli anni successivi, esso venne messo più volte alla prova – prima con l’invasione di Grenada e con quella di Panama, poi in Colombia alla ricerca di Pablo Escobar, successivamente in Iraq, durante Desert Storm, e in Somalia, alla ricerca di Mohammed Farah Aidid – riuscendo a fornire anche discreti risultati. 

Eppure, fu solamente l’attentato dell’11 settembre 2001 a dare il via a quella serie di cambiamenti che trasformarono il JSOC in un’infallibile macchina da guerra contro il terrorismo. A rendere possibile questo cambiamento non fu il progresso tecnologico. La famosa Revolution in Military Affairs (RMA), che si basava sull’uso combinato di armi ad altissima precisione e di strumenti, quali droni e satelliti, in grado di fornire alle forze americane intelligence di altissima qualità in brevissimo tempo, era in realtà già da tempo in atto. Ciò che permise al JSOC di guadagnare grande efficacia fu un cambiamento organizzativo, il cui promotore fu il Generale Stanley McChrystal, comandante del JSOC dal 2003 al 2008. Il Generale, proveniente dai Ranger, mise in atto una serie di provvedimenti che avrebbero rimosso ogni barriera burocratica tra le varie agenzie potenzialmente in grado collaborare alla condotta di operazioni di controterrorismo (Forze Speciali, CIA, NSA, FBI ecc.), favorendo e stimolando la cooperazione e la comunicazione tra di esse. Da quel momento, il JSOC sarebbe divenuto il nucleo centrale di una rete di elementi interconnessi e in grado di agire in maniera autonoma sfruttando le informazioni condivise e messe in rete da tutti gli attori che facevano parte di questo sistema altamente decentralizzato. 

Mentre McChrystal trasformava il JSOC, Bush si adoperava per fornirgli gli strumenti che avrebbero permesso a questa organizzazione di divenire il principale motore della guerra globale al terrorismo. La più grande applicazione pratica di questo concetto – la guerra al terrorismo, in quanto tale, permetteva sostanzialmente agli Stati Uniti di arrogarsi il diritto di intervenire ovunque volessero – fu l’Executive Order emanato da Rumsfeld nel 2003, con il quale il Segretario alla Difesa concedeva al JSOC l’autorizzazione preventiva a condurre operazioni di individuazione, eliminazione o cattura di obiettivi terroristici in 15 Paesi diversi. Con questo atto, in breve, il JSOC avrebbe potuto individuare ed eliminare o catturare gli obiettivi da esso identificati senza chiedere alcun tipo di autorizzazione. 

Il laboratorio iracheno e la maturazione afghana

L’Iraq fu il laboratorio in cui McChrystal testò ed affinò la sua macchina. Qui le operazioni di controterrorismo guidate dal JSOC, inizialmente indirizzate contro i vertici di al Qaeda, vennero condotte in maniera indipendente da quelle delle forze convenzionali. Il JSOC cominciò ad operare quindi come una sorta di organizzazione parallela al resto delle forze impegnate in Iraq, concentrandosi solamente sul contrasto alla rete di al Qaeda. Col passare del tempo, il ritmo con cui il JSOC svolgeva le sue attività divenne sempre più veloce, fino a raggiungere, nell’estate del 2005, una media di 300 operazioni al mese. La strategia elaborata dal Generale McChrystal si basava su un assunto molto semplice: per distruggere la rete di al Qaeda in Iraq, il JSOC avrebbe dovuto eliminare i vertici dell’organizzazione terroristica ad un ritmo maggiore a quello con cui essi venivano sostituiti. Il culmine del lavoro svolto da McChrystal e dalla sua macchina venne raggiunto il 7 giugno 2006, quando un attacco aereo condotto dalle forze statunitensi eliminò Mohamed al Zarqawi, il leader di al Qaeda in Iraq. 

Dal 2007, il JSOC venne integrato nella strategia delle forze convenzionali. Il surge con cui il presidente Bush sperava di porre fine all’insurrezione in corso in Iraq vide il JSOC operare in sincronia con il comando delle operazioni convenzionali, mantenendo la sua natura, quella cioè di “cacciatore di uomini”, mirando questa volta non soltanto ai vertici di al Qaeda, ma anche ai leader dell’insurrezione sunnita e fungendo, in qualche modo, da acceleratore delle operazioni. Questo passaggio assume notevole rilevanza nel processo di crescita del JSOC, perché rappresenta il momento in cui questa organizzazione, che fino ad allora aveva operato in maniera totalmente autonoma, lavora per la prima volta in maniera sinergica con le forze convenzionali e si inserisce a pieno titolo nella strategia di Contro Insurrezione (COIN) elaborata dal Generale David Petraeus ed implementata prima in Iraq e, successivamente, in Afghanistan. 

Proprio l’Afghanistan ha rappresentato il teatro in cui il JSOC ha raggiunto la sua evoluzione finale, quella che l’ha portato ad essere, in sostanza, ciò che è oggi. Nel 2009, infatti, il Generale McChrystal lasciò il suo incarico e venne nominato capo delle forze americane ed alleate in Afghanistan. Obama voleva capovolgere le sorti del conflitto e per farlo inviò nel Paese decine di migliaia di truppe aggiuntive. Anche qui, insieme con Petraues, all’epoca capo del CENTCOM, il Generale McChrystal tentò di mettere in pratica quanto realizzato con successo in Iraq dal suo commilitone, applicando la dottrina della COIN. Il JSOC, da parte sua, si sarebbe dedicato, oltre che all’eliminazione della rete di al Qaeda in Afghanistan, a colpire la rete talebana. In questo teatro, il JSOC aumentò moltissimo il ritmo delle operazioni, arrivando a condurre fino 20 raid per notte. 

Più che il ruolo svolto nella campagna di controinsurrezione, ciò che ha contribuito all’evoluzione finale del JSOC fu l’estensione, voluta da Obama, della condotta di operazioni di controterrorismo oltre i confini dell’Afghanistan. Consentendo la condotta di attacchi tramite drone contro sospettati membri di al Qaeda anche all’interno del territorio pakistano – la CIA, che ufficialmente gestiva le operazioni, condusse in Pakistan 53 attacchi nel 2009, 114 nel 2010 e 64 nel 2011 – Obama inaugurava così una nuova fase della guerra al terrorismo: questa non sarebbe stata vincolata ai territori in cui gli Stati Uniti conducevano operazioni convenzionali, come era stato in Iraq e in Afghanistan, ma si sarebbe allargata ben oltre. Al fine di colpire le reti terroristiche internazionali come al Qaeda, gli Stati Uniti avrebbero dovuto estendere il loro raggio di azione per colpire gli elementi chiave di queste organizzazioni e i loro affiliati dovunque ce ne fosse bisogno, prima in Pakistan, poi in Yemen, in Somalia e in Nord Africa. 

Una nuova forma di guerra

Le operazioni della CIA in Pakistan segnano l’avvento di una nuova forma di guerra che gli Stati Uniti condurranno in varie aree del globo sfruttando la vasta rete di basi e avamposti di cui possono permanentemente disporre. Una guerra, quella inaugurata nel 2009/2010, che rimane perlopiù segreta, e che esce in superficie solamente quando risulta inevitabile, come quando viene eliminato un grosso obiettivo, come nel caso del leader di al Qaeda, Osama bin Laden. 

L’esperienza afghana ha messo in luce le difficoltà, da parte di un paese occidentale democratico come gli Stati Uniti, di condurre operazioni convenzionali che vedono coinvolte decine di migliaia di uomini. La tipologia di guerra inaugurata da Obama, figlia dell’esperienza irachena e afghana, condotta dal JSOC e dalle agenzie da esso coordinate, è senza dubbio molto più discreta, quindi politicamente meno costosa.  Nonostante l’apparente banalità, sono emblematiche, in questo senso, le parole del Generale McChrystal, che interrogato sul motivo per il quale le forze speciali fossero così ben viste dai politici, oltre che dall’opinione pubblica, rispose così: “Primo, perché sono molto affascinanti; secondo, perché sono visti come uno strumento in grado di fare le cose in maniera molto economica, dato che oggi si possono mandare 10 bravi operatori a fare un lavoro che prima si sarebbe fatto con 100.000 soldati, con tutti i costi politici e umani del caso”. Evidentemente, il discorso non è così semplice: un tipo di operazioni di questo tipo può raggiugere solo alcuni limitati effetti, come la disarticolazione di una rete jihadista, ma non consente affatto di mantenere il controllo del territorio. Queste operazioni, peraltro, come ampiamente dimostrato in Afghanistan nelle scorse settimane, quando un raid americano ha erroneamente ucciso 10 innocenti, implicano l’accettazione di un elevato numero di morti civili, motivo per il quale, quando vengono a galla, sono ampiamente criticate. Sta di fatto, tuttavia, che dal 2010 a oggi la macchina creata da McChrystal è cresciuta a dismisura e con essa le operazioni da essa condotte. Nel 2000, le forze speciali americane operavano in circa 60 Paesi, mentre nel 2017 questo numero aveva raggiunto la cifra record di 149. Oggi lo US Special Forces Command (USSOCOM) conta non meno di 70.000 effettivi. Il numero degli operatori veri e propri, tuttavia, non è reperibile su fonti aperte.  Questa forma di guerra, gestita e coordinata dal JSOC, oggi somiglia più ad una perenne operazione di polizia che a una guerra vera e propria e non appare destinata ad arrestarsi in tempi brevi. Il presidente Biden deve fare i conti con un arco di instabilità, che va dall’Asia Centrale al Golfo Persico fino all’Africa occidentale, la cui gestione richiede continui interventi da parte delle forze americane. Sono interventi senza boots on the ground, certo, ma restano operazioni militari a tutti gli effetti. L’Afghanistan rientra a pieno titolo in questo arco, e anzi potrebbe presto divenirne uno dei cardini. Se la fine della guerra in Afghanistan significa la fine delle operazioni militari, la guerra, stando a quanto dichiarato dal vertice politico e militare degli Stati Uniti, probabilmente non è affatto finita.

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