Il contesto globalizzato influisce grandemente nella trasmissione delle crisi, siano esse finanziarie o geopolitiche. Il tramonto dell’epoca delle scoperte a cui vi si aggiunge la cessazione percettiva del globo quale spazio “aperto” determina l’involuzione di quest’ultimo verso un ambiente chiuso. Circostanza che definisce allora la percezione di una claustrofobia spaziale, elemento da molti ritenuto quale fattore scatenante delle due guerre mondiali.
La percezione spaziale avrebbe il potenziale di influire ancor più del dato reale geografico; autorevoli geopolitici, tra cui Halford Mackinder, ne sono fortemente convinti. Accusato di determinismo geografico, lo scozzese in realtà propugna l’idea per la quale la percezione cognitiva dello spazio, anche qualora questa non aderisca perfettamente al dato reale, ha un ruolo determinante nelle decisioni politiche. Anche Carlo Jean vede nella soggettività e nella percezione fattori che prendono il sopravvento su altri elementi, a maggior ragione nell’era dell’informazione. Si pensi alla percezione di estrema insicurezza dei russi per via dell’espansione della Nato.
Mackinder vedeva inoltre nel tramonto dell’età Colombiana, la congiuntura geopolitica che avrebbe favorito l’ascesa di uno spazio politico chiuso e unitario dal punto di vista percettivo. Tale contesto, sommandosi alla contrazione spaziale dovuta al fenomeno della globalizzazione, rende il soggetto geopolitico inquieto anche dinanzi a dinamiche geopolitiche spazialmente lontane. Si pensi al caso Taiwan e alla relativa attenzione che riscuote anche alle nostre latitudini.
Il contesto in cui ci cala Mackinder, rende più porosi i confini spaziali costituendo una struttura globale nella quale le vicende esterne, anche lontane, influenzano le dinamiche locali. Tali elementi, sommandosi, manifestano la declinante autonomia del politico, capovolgimento della narrazione in voga nei mesi della così detta “guerra di Putin”. Autonomia che viene sostituita da una pluralità di fattori dei quali il decisore deve tenere conto. Epilogo del sovrano assoluto, cioè sciolto da elementi esogeni.
Dimensione che riscopriamo oggi con l’intervento del 24 febbraio della Russia in Ucraina. Evento che determina una stretta virata o un’accelerazione repentina delle dinamiche geopolitiche. La guerra avrebbe avuto effetti non trascurabili sulle traiettorie dei singoli attori geopolitici, sconvolgendone le tattiche e gli orientamenti; acuisce rivalità sedimentate nel tempo, in attesa della giusta congiuntura per esplicitarsi; favorisce politiche interventiste di alcuni attori, consci dell’incapacità attuale della Russia di contare altrove; modifica la geopolitica dei flussi energetici nel continente eurasiatico. Lo spazio chiuso mackinderiano e l’ascesa di nuove potenze, che scuotono l’ormai declinante unipolarismo americano, sono fattori che determinano un nuovo fabbisogno di prestigio, di aree di influenza e quindi di spazio, esacerbando le rivalità. L’invasione dell’Ucraina ci presenta allora un contesto frenetico nel quale gli attori, anche lontani dal conflitto, sono sottoposti alle conseguenze e alle pressioni economiche, finanziarie geopolitiche e geostrategiche dello stesso.
Pechino è sotto i riflettori. Attore sistematicamente revisionista, si avvicina nei decenni post guerra fredda a Mosca, rapporto che acquista valenza strategica parallelamente al crescere delle tensioni sul fronte est della Nato. Nonostante le caratteristiche strutturali che vedono inconciliabili gli interessi geopolitici regionali dei due soggetti eurasiatici, stringono ulteriori accordi e aumentano gli incontri bilaterali. Il 24 febbraio fa temere agli apparati di Washington che anche Pechino possa avere un piano simile a quello del Cremlino, col rischio di gettare gli Stati Uniti in uno scontro su due fronti, nell’Europa centrorientale e nell’Indo-Pacifico. Congiuntura avversa dalla Casa Bianca che deve quindi corroborare la deterrenza a Taiwan, lasciando che Nancy Pelosi faccia visita a Taipei nonostante le apparenti raccomandazioni del Presidente Biden.
Guerre di questa portata impongono ai grandi attori di schierarsi, prendere decisioni, costrizioni a cui Pechino non può e non vuole attualmente cedere. Sente di non aver ancora le capacità per affrontare lo sforzo di recuperare manu militari Taipei e necessita di rapporti stabili tanto con Mosca quanto con Washington. Fattori questi che spiegano la tendenza cinese a non schierarsi platealmente a favore della Russia. Pechino approva la narrazione inerente l’avvicinamento della Nato, ma senza fornire a Mosca un sostanziale supporto paragonabile a quello che gli occidentali stanno offrendo a Kiev.
L’attività bellica, o quantomeno il presagire di una guerra imminente, impone alle grandi potenze la frenesia nell’avvicinare quanto più satelliti possibili, utilizzando narrazioni e propagande – soft power – che agevolino tanto impegno. Pechino, concentrata sull’ascesa egemonica nei mari adiacenti, necessita di un’Eurasia stabile e di una Federazione Russa non ostile. Non che Pechino tema Mosca più di quanto teme Washington, ma l’accumularsi dei rivali le renderebbe ingestibile il containment statunitense. Vittima della propria posizione relativa e asserragliata dal cordone militare che Washington le costruisce attorno, sui mari adiacenti per l’appunto, deve guardarsi bene dal non inimicarsi i vicini asiatici.
Tuttavia l’ambiguità pechinese, con il prolungarsi della guerra, non potrà durare a lungo, Washington lo comprende e decide di mostrare risolutezza nell’Indo-Pacifico, con il rischio che le tensioni sfocino in escalation. Guerra di nervi.
Il confronto investe i Paesi del Golfo e dell’Africa settentrionale. La diversificazione dei paesi europei impone loro di volgere lo sguardo a sud. Washington si attiva per migliorare le relazioni con Riyadh diminuendo le accuse verso la casa saudita in cambio di una maggior offerta di idrocarburi, funzionale a lenire le sofferenze economiche patite dagli europei. Anche il Ministro degli Esteri Lavrov ha fatto visita in Arabia Saudita facendo forza sulla membership all’OPEC+ e sull’utilità a mantenere alto il costo delle risorse energetiche, dovendo però probabilmente chiarire la posizione relativamente all’Iran. L’Africa diviene area in cui proiettare influenza diplomatica, la Federazione Russa e gli occidentali si sono spesi per fare pressioni e per legittimare le rispettive posizioni. Battaglie propagandistiche, giocate sulla questione del grano, volte ad isolare il rivale.
Ankara tenta la mediazione con lo scopo velato di accumulare prestigio. È impegnata peraltro a calmierare le acque nel suo cortile di casa, essendo già lambita a sud dalla guerra siriana.
Non senza chiedere nulla in cambio, media tra Mosca e Ucraina per quanto concerne l’esportazione di grano, che la vede in prima linea tra i paesi importatori, facendosi poi garante di quei paesi a rischio di una crisi alimentare, vicini peraltro ad Ankara per fattori religiosi. Parallelamente vorrebbe estendere la sua profondità strategica a spese della Siria, contropartita chiesta a Mosca per l’estenuante lavoro di mediazione portato avanti dalla sua diplomazia. Con la scusa della minor presenza di Mosca nella Siria settentrionale, per via della guerra ucraina che drena risorse e personale, Ankara chiede di gestire unilateralmente alcune porzioni di Kurdistan, in ottica sicuramente anti-curda, ma probabilmente anche anti-iraniana.
L’attuale congiuntura restringe lo spazio in cui operano i soggetti geopolitici, ne accelera le dinamiche imponendo ad alcuni manovre sconcertanti, come lo stanziamento tedesco di 100 miliardi per le forze armate. Ulteriore segnale della compressione spaziale dal punto di vista percettivo. Qualora tale percezione diventasse patologica si tenderà ulteriormente verso un “disordine globale”.