La questione ucraina pone seri interrogativi sulle relazioni mondiali tra Oriente e Occidente e sulla configurazione futura del sistema internazionale. Quella che si sta combattendo dal 24 febbraio tra le forze russe, coadiuvate dai loro alleati strategici, e quelle ucraine, supportate dai paesi Nato e dagli Stati europei, non è solo una guerra per il controllo del Donbass e della parte russofona – orientale e meridionale – dell’Ucraina, ma a più ampia scala è il tentativo russo di superare il modello internazionale fondato sull’egemonia americana. Questo è quanto emerge chiaramente dai discorsi di Vladimir Putin e del Ministro degli esteri Sergey Lavrov, i quali in più occasioni hanno messo in luce il carattere revisionista delle operazioni belliche in Ucraina.
Se da una parte la questione geografico-etnica è centrale nelle rivendicazioni del Cremlino – e lo è stata fin dall’inizio della guerra – dall’altra parte nei discorsi provenienti da Mosca si è fatto più volte riferimento alla guerra in Ucraina come mezzo per destabilizzare la centralità americana e il modello di globalizzazione che si è imposto, con fasi alterne, negli ultimi trent’anni. Questo tentativo russo pone alcuni seri interrogativi sul presente e sul futuro degli assetti mondiali, sul posizionamento delle medie potenze, sulle relazioni degli Stati Uniti con i loro storici alleati, sull’efficacia dell’Unione Europea di rispondere alle sfide poste dalle migrazioni internazionali e dagli scenari critici mondiali.
Prima di tutto, bisogna comprendere la posizione degli Stati Uniti nello scenario internazionale. Come sostiene Daniel Pipes, a dispetto delle previsioni della fine del secolo scorso di un mondo piatto, senza confini (Kenichi Ohmae), rivolto verso la fine della storia (Francis Fukuyama), e posto l’assoluto primato mondiale americano in termini militari, negli ultimi vent’anni il tentativo di preservare il momento unipolare da parte degli Usa è stato più volte messo in crisi da alcuni fatti. Prima l’attacco alle Torri Gemelle, poi le conseguenti operazioni belliche in Afghanistan dal 2001 e in Iraq dal 2003, che hanno avuto come effetto l’eccessivo impegno nei teatri mondiali e che hanno comportato l’ingentissimo impiego di risorse pubbliche, con scarsi risultati – o per meglio dire drammatici risultati – in termini politici. Poi, ancora, la crisi finanziaria del 2008, che ha minato alle basi la globalizzazione economica e il principio stesso su cui essa si basa, facendo emergere sistemi alternativi di paesi e coalizioni (si pensi ai BRICS) che hanno sempre più cercato di attirare a sé le forze alternative al modello globalizzato statunitense. E ancora l’emergere delle Primavere arabe, supportate anche dagli Usa, che hanno avuto un impatto in termini di caos euro-mediterraneo, di ascesa dello Stato Islamico e del terrorismo internazionale. E infine, negli ultimi anni, il Covid-19 e il ritiro delle truppe dall’Afghanistan della scorsa estate, eventi questi che hanno posto gli USA in un campo di crisi interna ed internazionale, acuita dalla crisi in Ucraina che configura un possibile nuovo assetto mondiale.
L’Unione Europea, in questo quadro di profonda crisi geopolitica e di incertezza geografica, non ha una posizione comune di politica estera: i molti interessi nazionali emergono puntualmente ad ogni tornante storico critico, così come è apparso evidentissimo negli ultimi tre mesi nella guerra in Ucraina. La Germania di un ancora debole Scholz e l’Italia legati a doppio filo a Mosca per questioni energetiche, la Francia di Macron impegnata nei tentativi di mediazione configurano una compattezza generale sulle sanzioni che sembra più un segnale di debolezza e di scarsa autonomia nei confronti della Nato che di reale forza.
Questo sintetico scenario, che non considera il resto del mondo, assai imponente in termini numerici e di popolazione rappresentata, ci induce a proporre alcune riflessioni: davvero la Nato uscirà rafforzata dalla posizione antirussa e dal tentativo, più volte esplicitato da Washington, di destabilizzare il Cremlino? Se le scommesse militari sull’Ucraina, su cui i paesi europei hanno decisamente puntato, dovessero essere perse, quali saranno gli effetti di medio periodo? Al di là dei 30 paesi della Nato e degli altri che hanno appoggiato il sistema sanzionatorio, la mappa mondiale ci racconta di una maggioranza di paesi che non hanno preso parte al conflitto o che si sono astenuti in sede ONU dall’aperta condanna alla Russia e che sembrano collocarsi su baricentri geopolitici nuovi ed emergenti.
La Russia, attraverso la guerra in Ucraina, sembra voler porsi a capo di un nuovo e diverso fronte mondiale, ancora inevitabilmente incapace di gareggiare in termini militari con gli Usa ma certamente volenteroso nel creare un’alternativa agli Stati Uniti che coinvolge inevitabilmente anche il Medio Oriente, dove bisogna volgere lo sguardo per capire anche i futuri assetti mondiali e dove si sta assistendo a una ridefinizione del quadro regionale.
Tenuto conto degli accordi di Abramo, del fallimento di una certa politica americana nell’esportare la democrazia e nel proporre regime change (si pensi alla Siria), o nel fallimento diretto della stabilità di alcuni paesi nordafricani (si pensi alla Libia) o all’allontanamento dal modello occidentale di paesi come Turchia o Egitto, una ridefinizione globale e di un nuovo Medio oriente, sembra decisamente profilarsi – come sostenuto anche nell’ultimo numero di Foreign Affairs.
In questo incerto scenario, in rapida evoluzione, i paesi occidentali sembrano non essere efficaci nelle risposte alle crisi regionali che stanno emergendo negli ultimi anni. Se da una parte conservano un potere attrattivo in termini di soft power innegabile, dall’altra parte è sempre più evidente il cambiamento nel bilanciamento dei poteri a livello mondiale, che proprio nel Medio Oriente trova un suo teatro fondamentale: come ha giustamente notato Marc Lynch, molti politici occidentali continuano a considerarlo in una vecchia dinamica post-coloniale, senza conoscerne le profonde dinamiche geografiche, territoriali e identitarie che ne muovono i tasselli fondamentali e gli attori e che stanno ridefinendo i contorni cartografici dell’area. Si usa in altre parole un modello cartografico ormai desueto, che non tiene conto dei rapidi cambiamenti sociali, del fattore demografico e religioso e delle connessioni transregionali e delle influenze strategiche che stanno cambiando i contorni della regione.
Gli attori in campo rimangono in attesa dell’evoluzione degli eventi, con un atteggiamento che cambia in funzione delle loro alleanze storiche e dei giochi di forza.
La Turchia quale paese membro della Nato che – in quanto ponte geografico naturale tra l’Oriente musulmano e l’Occidente – si è posto come attore capace di mediare per il cessate il fuoco, anche avvalendosi della posizione contraria assunta sull’allargamento della Nato a Finlandia e Svezia, pur considerando la sua prospettiva strategica neo-ottomana e per molti versi in competizione con la Russia nel contesto euromediterraneo. Israele, che si è allontanata dai toni di fiera opposizione alla Russia promossa dai paesi occidentali, tenendo conto della necessità di stabilizzare l’area e l’Iran, con le sue connessioni siriane, irachene e libanesi e un’attitudine a influenzare gli altri attori regionali in ottica sciita, nonché l’Arabia Saudita, quale fornitore energetico di primo piano mondiale che, pur avendo un’alleanza strategica con gli Stati Uniti e un “conto in sospeso” con la Russia sul prezzo del petrolio, ha condannato solo formalmente l’aggressione di Mosca a Kiev.
La guerra in Ucraina va dunque considerata nei suoi riflessi globali e nella destabilizzazione che creerebbe anche in Medio Oriente, rifuggita da molti degli attori in campo. Come sottolinea Gregory Gause, la scelta nella regione è spesso tra una governance che ci piace poco e un’assenza di governance, che significherebbe destabilizzazione e disordine regionale, vero cruccio per i principali attori regionali.
Mentre l’Occidente continua a seguire un modello globale incentrato su se stesso, il mondo stesso sembra volgere lo sguardo a una realtà che si configura sempre più come multipolare, che era stata individuata da teorici della geopolitica come Karl Haushofer, che aveva immaginato un mondo suddiviso in panregioni, o Samuel Paul Huntington, il quale aveva profilato una realtà globale basata su grandi civiltà. La stabilità mondiale, secondo tali visioni, si baserebbe sempre di più sulla stabilità delle regioni prevalenti del mondo e non più sulla sola capacità di un singolo stato di garantire l’ordine mondiale, per quanto forte e militarmente influente esso sia.
Il mondo mediorientale, come realtà geopolitica in grande fermento e con prospettive demografiche di enorme portata, rappresenta un tassello fondamentale per il futuro ordine globale e la stabilità dello stesso: sarà proprio la capacità di creare un sistema ordinato e certo, nel riconoscimento reciproco delle diversità storiche e anche di quelle religiose, che potrà costruirsi un futuro di relazioni pacifiche e di prosperità complessive.