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TematicheCina e Indo-PacificoLe conseguenze geopolitiche delle violenze in Manipur

Le conseguenze geopolitiche delle violenze in Manipur

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Dal 3 maggio scorso il Manipur, Stato indiano del nord-est al confine con il Myanmar, è scosso da violenze etniche che hanno causato oltre 130 morti e circa 60.000 di sfollati. In gioco ci sono la stabilità della regione, la Act East Policy e la credibilità dell’intero Paese.

Da circa tre mesi nello Stato del Manipur sono in corso scontri etnici tra i Meitei – il gruppo etnico maggioritario (circa 53% della popolazione) e di religione prevalentemente induista – e i Kuki – minoranza etnica di fede prevalentemente cristiana. 

La causa scatenante delle violenze è stata la protesta dei Kuki contro una ordinanza della Alta Corte del Manipur – ritenuta dalla Corte Suprema fattualmente errata e contraria ai principi costituzionali – che invitava il governo locale (in mano al Bharatiya Janata Party) ad estendere lo status di comunità tribale riconosciuta ai Meitei.

La Costituzione indiana, infatti, stabilisce che le comunità tribali riconosciute possono essere beneficiarie di norme speciali di gestione amministrativa e di misure speciali per il miglioramento delle loro condizioni, come la riserva di posti di lavoro, sussidi, sovvenzioni, nonché misure di protezione della proprietà fondiaria.

Queste violenze, in realtà, sebbene esacerbate dalla mancanza di opportunità di lavoro e da pretese territoriali, hanno radici più profonde e più complesse in cui si intrecciano interessi politici, produzione e traffico di droga e traffico di essere umani dal vicino Myanmar.

Il Manipur è uno Stato con circa 3.3 milioni di abitanti e una trentina di gruppi etnici (i principali sono i Meitei, i Kuki e i Naga). 

Membro dell’Unione indiana dal 1949, il Manipur fin dai primi decenni ha visto il sorgere di gruppi insorgenti che ne reclamavano l’indipendenza e a cui sono seguiti scontri con l’esercito.

La pace in Manipur è stata a lungo mantenuta solo grazie alla presenza dell’esercito e l’utilizzo di controverse leggi speciali come l’Armed Forces Special Powers Act.

Come riferito al The Diplomat da Binalakshmi Nepram, fondatrice e direttrice del Manipur Women Gun Survivors Network/Control Arms Foundation of India, nel Manipur oggi esistono circa una sessantina di gruppi armati, il cui numero è cresciuto esponenzialmente negli anni ’80 e ’90 in parallelo con la coltivazione e il traffico di droga. 

Il Manipur, infatti, si trova vicino al famoso Triangolo d’oro dove si produce circa il 60% dell’eroina mondiale. Il Myanmanr è il secondo produttore mondiale di oppio.

Secondo Binalakshmi Nepram, l’attuale conflitto etnico (non religioso) sarebbe stato costruito da gruppi di potere politico legati e influenzati dai gruppi armati. Meitei e Kuki, infatti, non hanno mai combattuto tra loro (in passato ci sono state violenze tra Kuki e Naga), ma al contrario hanno convissuto pacificamente per decenni.

Negli ultimi anni, il governo locale ha lanciato una controversa campagna per la distruzione di campi di papaveri, prevalentemente in territori abitati dalla minoranza Kuki che hanno denunciato che tali operazioni erano appositamente mirate a colpire la loro minoranza.

La risposta del governo federale rispetto alle violenze è stata, finora, quella di bloccare internet e riversare decine di migliaia di soldati nello Stato per dividere le due comunità e creare delle zone cuscinetto. L’effetto è stato quello di “balcanizzare” il Manipur, cristallizzando le divisioni e rendendo la riconciliazione molto difficile.

Il Centro – come viene chiamato il governo federale – è accusato, non soltanto di non avere una soluzione politica alla crisi, ma neppure di aver mai davvero compreso i problemi del Manipur.

L’opposizione, in particolare il partito del Congresso, ha accusato il governo Modi di non aver fatto abbastanza per fermare le violenze e riportare l’ordine nello Stato, invitandolo a rimuovere il governo locale ed imporre il controllo federale. 

Solo dopo la diffusione nei media di un video in cui si vedono delle donne Kuki, dopo aver subito violenze, venire trascinate nude in mezzo ad una folla, il premier Narendra Modi ha rotto il silenzio condannando l’accaduto. Tale evento ha indotto anche la Corte Suprema a intervenire invitando il governo ad intervenire per assicurare i colpevoli alla giustizia.

L’opposizione ha, poi, presentato una mozione di sfiducia contro il governo Modi. Sebbene la mozione sia destinata ad essere respinta, data la larga maggioranza di cui gode il governo in Parlamento (Lok Sabha), l’iniziativa è finalizzata a costringere il premier Modi a comparire in Parlamento e aprire un dibattito sul Manipur.

Secondo quanto dichiarato al The Diplomat da Sushant Singh – Senior Fellow presso il Centre for Policy Research – le conseguenze geopolitiche delle violenze in Manipur sono molteplici.

In primo luogo, c’è il rischio che l’instabilità contagi gli Stati limitrofi, come Mizoram, Nagaland, fino all’Arunachal Pradesh e l’Assam. Stati in cui ci sono presenti gruppi etnici legati a quelli del Manipur. Lo scorso 25 luglio, infatti, diverse proteste si sono tenute nel Mizoram.

A quanto sopra si aggiunge che molti dei gruppi etnici presenti nel nord est dell’India sono anche in Myanmar – dove da anni è in corso una guerra civile e da cui proviene diversa immigrazione illegale. Questi potrebbero fornire supporto alimentando le tensioni e violenze.

Quanto sopra, a sua volta, mette seriamente a rischio la Act East policy del governo Modi, cioè il progetto di politica estera volto a rafforzare i legami tra India e paesi dell’ASEAN migliorando la connettività anche attraverso progetti infrastrutturali che necessariamente passano attraverso il Manipur o comunque il nord est dell’India.

Le violenze in Manipur, inoltre, rischiano di ridurre la sicurezza dell’India sotto diversi profili. 

In primo luogo, immediatamente dopo lo scoppio degli scontri etnici, gli arsenali della polizia sono stati presi d’assalto e rubate miglia di armi e munizioni, finite nelle mani anche di gruppi armati. Non si può escludere che questo possa favorire il ritorno di gruppi insorgenti.

In secondo luogo, i soldati inviati ora in Manipur erano prima dislocati sul confine – tutt’altro che pacifico – con la Cina. Qualora l’instabilità in Manipur dovesse prolungarsi o peggiorare anche estendendosi ad altri Stati, il governo di Nuova Delhi sarebbe costretto a mantenere l’esercito in quella zona indebolendo il confine con la Cina, dove l’India sta cercando di recuperare lo svantaggio.

Ulteriore conseguenza è la ricaduta in termini di credibilità

Negli ultimi anni, infatti, l’India ha incrementato la cooperazione nella difesa con diversi Stati dell’ASEAN, presentandosi come un partner affidabile ed utile nel controbilanciare l’influenza cinese.

L’incapacità di riportare l’ordine e la pace all’interno del proprio territorio rappresenta un rischio per l’aspirazione indiana di diventare un fornitore di sicurezza nella regione. Aspirazione, peraltro, sostenuta da Washington in quanto componente della strategia americana del contenimento della Cina nell’Indo Pacifico.

Sempre secondo Sushant Singh, infine, ciò che si osserva oggi in Manipur è anche il risultato di politiche politiche maggioritaristiche del governo locale, un trend osservabile anche in altri Stati e a livello nazionale.

Queste politiche, oltre minacciare la stabilità interna, sono fonte di tensioni con l’Occidente.

Il Parlamento Europeo, lo scorso mese di luglio, ha adottato una risoluzione in cui ha denunciato le violenze e criticato le politiche etnonazionalistiche attuate dal BJP, a livello locale e nazionale.

Questa risoluzione è stata condannata dal Ministero degli esteri indiano come una inaccettabile interferenza negli affari interni che riflette una mentalità coloniale.In conclusione, le violenze in Manipur, se non risolte con una chiara ed efficace strategia politica, hanno il potenziale di innescare una spirale di instabilità che rischia di compromettere non solo la pace e sicurezza della regione, ma avere conseguenze geopolitiche più estese.

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