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La Commissione attira a sé il potere mentre riforma il patto di stabilità e crescita 

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Da quando lo scorso novembre la Commissione Europea ha finalmente presentato il piano di riforma per il Patto di Stabilità e Crescita, l’accordo che sottende alla stabilità dell’unione economica e monetaria europea dal 1997, cenni di approvazione e di dissenso sono stati sollevati. Il piano proposto contiene innovazioni radicali sulla formulazione dei piani di bilancio nazionali e sulla loro supervisione da parte delle istituzioni europee, specialmente dalla Commissione, e l’impatto che potrebbe avere caratterizzerebbe in modo diverso i rapporti dei singoli stati con le istituzioni europee.

L’urgenza di riformare il Patto di Stabilità e Crescita, adottato negli anni ’90 e poi ripetutamente e confusamente modificato nel corso degli ultimi 20 anni, si è fatta strada a seguito del rapido avvicendamento con cui si sono succeduti prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina, evidenziando l’importanza di modificare le regole fiscali e di colmare il divario tra Nord e Sud Europa prima che diventi insormontabile. La sospensione del Patto di Stabilità a marzo 2020 e le ripetute infrazioni di diversi paesi europei nel corso degli anni non hanno fatto che sottolineare il bisogno di riforme. La riforma centrale sostituisce il “braccio preventivo” del Patto di Stabilità e Crescita: se i due parametri fondamentali, scolpiti nella pietra nel 1992, di possedere un deficit pubblico non superiore a 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil, restano invariati, il nuovo piano di aggiustamento a medio termine, classificato in base ai rischi di sostenibilità, si riferisce ora alle spese primarie nette. Questo significa che i piani saranno basati su quegli elementi della spesa pubblica che il governo può controllare, e dunque detti discrezionali, che escludono gli interessi sul debito e la spesa ciclica per la disoccupazione, piuttosto che altri variabili difficili da osservare come l’output gap, la differenza tra Pil effettivo e Pil potenziale. 

La logica fondante è che la stesura di piani di medio termine basati sulla spesa li renderà meno suscettibili allo stato dell’economia, che essa sia in fase di espansione o in recessione, e potenzialmente più recettivi alla qualità della spesa. In altre parole, con la possibilità di allungare i periodi di aggiustamento se vengono proposte riforme e investimenti favorevoli alla crescita di lungo periodo, i futuri piani fiscali si adatteranno meglio alle circostanze economiche di ciascun paese, favorendo scelte politiche che promuovano la crescita, ma anche lasciando una maggiore libertà e discrezionalità alla Commissione Europea. La stessa libertà lasciata agli Stati nazionali di progettare politiche basate sulle rispettive priorità nazionali, favorendo la crescita a lungo termine, è un passo avanti rispetto all’impostazione di regole che il Patto di Stabilità e Crescita comportava prima della riforma. Ma quell’elemento di discrezionalità, un passo avanti dalla semplice definizione di regole, include l’utilizzo di giudizio da parte della Commissione Europea nella negoziazione del piano fiscale, un ruolo che potrebbe essere facilmente – ed erroneamente – riportato e sottoposto al controllo delle forze populiste. È infatti la Commissione a decidere la classificazione tra rischio di sostenibilità alto, medio e basso dei diversi paesi, ed è sempre la Commissione a determinare se il debito pubblico è “su un percorso plausibilmente discendente”. L’accresciuto ruolo della Commissione va contro la logica delle leggi di bilancio, tradizionalmente di competenza degli Stati membri. Nonostante la Commissione abbia sottoscritto la volontà di fortificare le posizioni nazionali, il nuovo piano di riforma sembra non aver lasciato spazio per consigli fiscali nazionali indipendenti che negli ultimi anni si sono rivelati essere piuttosto efficaci nel monitorare bilanci governativi dalla loro preparazione alla realizzazione finale. I consigli fiscali nazionali sono enti pubblici apartitici che monitorano il rispetto delle leggi fiscali, producono o approvano previsioni macroeconomiche e possono svolgere consulenza al governo in merito di politica fiscale, come la Corte dei conti in Italia. Il fatto che la Commissione abbia totalmente ignorato lo strumento che più negli ultimi anni si è dimostrato promettente per stabilire la disciplina fiscale all’interno dell’Unione può essere motivato dalla perdita di centralità che ne sarebbe ricavata da parte della Commissione in caso di implementazione. 

Il problema del piano di riforma del Patto di Stabilità e Crescita riguarda proprio il grado di invasione della sovranità dei singoli stati attentata dalla Commissione e come essi reagiranno. Se dai paesi del Sud Europa, bisognosi dei fondi da dedicare ai propri investimenti, ci si può aspettare un maggior sostegno della riforma, c’è da aspettarsi che i paesi del Nord Europa, specialmente i Frugal Four, siano contrari a piani meno stringenti e tempistiche più rilassate in caso di investimenti che supportano la crescita di lungo periodo per i paesi più in difficoltà. Il tutto andrebbe poi inserito all’interno dei singoli contesti nazionali e dalla relativa disponibilità di concedere maggiori poteri alle istituzioni europee. Governi più populisti e mano disposti a condividere il potere con Bruxelles troveranno facili appigli per muovere contro alle riforme appena proposte. 

Se la Commissione è da lodare per aver riconosciuto che la disciplina fiscale è un concetto da poter attuare solo tramite lo studio dell’evoluzione del debito nel lungo termine che deve essere accertato nello studio di ogni caso specifico, l’accentramento del potere decisionale verso il palazzo di Berlaymont può diventare un’arma a doppio taglio per l’approvazione delle riforme tanto desiderate e necessarie. Alla valutazione dei singoli governi nazionali, si dedurrà chi rimarrà ferito dalla tentata presa di potere della Commissione. 

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