Mentre il ritiro delle forze occidentali schierate in Afghanistan procede speditamente, il governo afghano sta perdendo il controllo del paese. I talebani non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla violenza e sedersi al tavolo delle trattative. A poco più di due mesi dalla scadenza fissata da Biden, il Pentagono non ha ancora elaborato i piani per il post-ritiro. Quanto all’Italia, le operazioni procedono velocemente.
Le mosse dei talebani
Sono trascorsi più di due mesi da quando il Presidente Biden ha annunciato ufficialmente la fine dell’impegno americano in Afghanistan, stabilendo il ritiro delle truppe entro la simbolica data dell’11 settembre 2021. L’annuncio del Presidente democratico, cui si sono accodati immediatamente tutti i capi di Stato dei paesi che prendono parte alle operazioni, ha accelerato una dinamica che – sin dall’inizio dei colloqui di pace di Doha – ha caratterizzato quella che può essere definita nuova fase del conflitto, ovvero l’incremento delle offensive da parte dei talebani. In effetti, gli ultimi dati dell’ONU offrono cifre alquanto preoccupanti: oltre il 57% dei centri amministrativi distrettuali sarebbe già sotto controllo dei talebani, in aggiunta ad un’area compresa tra il 50%e il 70% del territorio afghano non urbanizzato.
Il modus operandi scelto dai talebani nell’ultimo anno si fonda su due principali elementi: oltre alle offensive condotte contro i centri urbani più importanti, come quella rivolta contro la capitale della provincia di Helmand, avviata subito dopo la scadenza del termine massimo per il ritiro concordato da Trump a Doha, i talebani hanno predisposto centinaia di posti di blocco nelle arterie più importanti del paese, soprattutto lungo le autostrade. Il controllo delle principali vie di comunicazioni, oltre che trasmettere alla popolazione locale la sensazione di una grave incapacità da parte del governo centrale di controllare il territorio e di affermare l’autorità dei guerriglieri, permette ai talebani di interferire nella fornitura dei servizi principali, già di per sé poco efficiente. A dispetto della retorica secondo la quale “non esiste una soluzione militare alla guerra”, la violenza perpetrata dai talebani sembra aver portato, almeno negli ultimi mesi, a risultati alquanto positivi per i guerriglieri. A tal proposito, i talebani hanno imposto, almeno due volte, lo slittamento in avanti della conferenza di pace in Turchia e hanno richiesto agli Stati Uniti sempre maggiori concessioni, come la rimozione dalle liste dei ricercati di alcuni loro esponenti e il rilascio di alcuni prigionieri di guerra, il tutto mentre le offensive sottraevano sempre maggiori fette di territorio al governo afghano. Nonostante i rappresentanti del governo afghano e i talebani si siano incontrati a Doha ad inizio maggio e nuovamente ad inizio giugno, la diplomazia non ha portato a nessun progresso. Il tutto lascia pensare che quella adottata dai talebani sia una strategia che non contempla, almeno per ora, la possibilità di rinunciare all’uso della forza, ovvero a quell’elemento che rappresenta il loro strumento più efficace.
Le mosse degli americani
Dal momento dell’annuncio del ritiro, gli americani hanno esibito una certa fretta nella condotta delle operazioni necessarie per consentire il ritiro dei circa 2.500 militari ancora schierati sul territorio e di tutto l’equipaggiamento trasportato in Afghanistan nel corso dei passati venti anni di guerra. Attualmente, infatti, il Comandante dello US Central Command (US CENTCOM) ha riferito che le operazioni di ritiro sono giunte circa a metà dell’opera, mentre il personale rimpatriato corrisponde a una percentuale che si aggira tra il 30 e il 44% del totale (dati riferiti al 4 giugno). A quanto pare, l’esecutivo vorrebbe accelerare ulteriormente il ritiro, portandolo a compimento entro la metà di luglio, così da chiudere la questione il più rapidamente possibile. La velocità impressa dal Presidente Biden al ritiro, tuttavia, rende il costo dell’operazione maggiore rispetto a quello che gli Stati Uniti avrebbero dovuto pagare se i tempi fossero stati più dilatati. La necessità di concludere rapidamente le operazioni di smantellamento delle basi e degli avamposti realizzati sul territorio senza che essi cadano in mano talebana impone necessariamente, in moltissimi casi, la distruzione in loco del materiale, come sta avvenendo in numerose province del paese, in maniera particolare a Baghram. Qualcosa di simile a quanto accaduto nel lontano 2014 quando, col passaggio dell’operazione ISAF a Resolute Support, decine di migliaia di truppe lasciarono l’Afghanistan dopo aver venduto ai cittadini afghani 176 milioni di kili di rottami per una cifra pari a 46,5 milioni di dollari. Il prezzo del ritiro dovrà tener conto, tra l’altro, delle nuove costosissime infrastrutture necessarie alla condotta di operazioni di contro terrorismo che gli Stati Uniti sembrano intenzionati a continuare a condurre fuori dal paese.
Negli ultimi mesi, mentre procedevano le operazioni di ritiro sul terreno, l’esecutivo americano ha approvato due importanti stanziamenti di fondi in favore del governo afghano. Il primo, in realtà già promesso da Trump, che lo aveva condizionato al progresso nei colloqui di pace, è avvenuto il 21 aprile e ha visto la fornitura di 300 milioni di dollari all’esecutivo di Kabul per favorire, tra le varie cose, l’azione delle autorità afghane nella lotta alla corruzione, nella promozione della crescita economica e nello sviluppo di media indipendenti. Il secondo, avvenuto il 4 giugno, è consistito nella fornitura di 266 milioni di dollari volti a migliorare soprattutto la fornitura di acqua potabile e dei servizi igienici. Tuttavia, il tentativo americano di utilizzare la fornitura di denaro come strumento da utilizzare come leva nei confronti dei talebani non sembra offrire i risultati sperati. Questo soprattutto perché, vista l’incapacità da parte delle forze afghane di controllare il territorio, gli Stati Uniti non possono esercitare un controllo effettivo sulle somme da loro versate che, inevitabilmente, finiscono anche in mano talebana.
Quali prospettive dopo l’avvenuto ritiro
Gli Stati Uniti sono consapevoli del fatto che il ritiro delle forze statunitensi e di quelle della NATO potrebbe generare nuove violenze e, soprattutto, potrebbe dare il via libera all’ingresso nel paese di nuove forze aventi interessi contrari a quelli americani. Il Segretario di Stato, Antony Blinken, si è espresso chiaramente a riguardo, riconoscendo con schiettezza la possibilità che alcuni attori interessati all’instabilità, da lui definiti free riders, potrebbero entrare in Afghanistan. Blinken ha anche spiegato che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di disinteressarsi del paese dove per vent’anni hanno versato il sangue migliaia di soldati americani. “Gli Stati Uniti rimarranno diplomaticamente impegnati nel paese in supporto al governo afghano e ai suoi cittadini, in supporto allo sviluppo, all’assistenza economica e umanitaria, in supporto alle forze di sicurezza”. Proprio in riferimento a quest’ultimo compito, quello del supporto alle forze di sicurezza afghane, si è espresso il Capo di Stato Maggiore Congiunto, il Generale Mark Milley, che ha spiegato come gli Stati Uniti continueranno a fornire addestramento ai militari di Kabul, ma verosimilmente fuori dai confini dell’Afghanistan. Negli stessi termini si è espresso il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, che ha promesso che l’Alleanza non si dimenticherà dei militari afghani, ma che anzi, oltre all’addestramento delle forze locali fuori dai confini nazionali, essa continuerà a fornire fondi per il Ministero della Difesa afghano e per la manutenzione delle infrastrutture critiche, come per esempio l’aeroporto di Kabul.
Quanto alle operazioni militari sul territorio afghano, molto probabilmente gli Stati Uniti non rinunceranno alla possibilità di condurre operazioni di intelligence e di contro-terrorismo, pena la totale perdita di controllo di quanto avviene all’interno del paese. Per mantenere queste capacità, è probabile che il Pentagono richieda a Biden di mantenere sul territorio un’aliquota di militari, la cui consistenza potrebbe aggirarsi intorno alle mille unità. La presenza di un ridotto contingente su di un territorio tre volte più grande dell’Italia, evidentemente, non basta per assolvere a questo compito. In questi giorni, infatti, il CENTCOM sta valutando varie opzioni da fornire al Segretario della Difesa, Lloyd Austin, per assicurare la condotta di queste operazioni. L’idea è quella di rivolgersi agli Stati vicini per ottenere il consenso a schierare truppe sul loro territorio, in modo tale da condurre le operazioni militari in Afghanistan senza dover percorrere troppa strada. In alternativa, nel caso in cui questi Stati si rifiutassero – il Pakistan si è già espressamente dichiarato contrario, mentre per Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan sarà molto difficile, vista la grande influenza russa in questi Stati – gli Stati Uniti dovrebbero affidarsi alle basi già presenti nel Golfo, come la base di Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti, o ai soliti gruppi di volo imbarcati sulle portaerei.
Infine, due battute sugli alleati e sull’Italia. Le principali potenze europee della NATO – Germania, Francia e Regno Unito – nonostante si siano schierate contro l’idea di un ritiro così rapido, consapevoli delle costose conseguenze che questo avrebbe generato, hanno iniziato subito le operazioni di smantellamento (non la Francia che ha lasciato l’Afghanistan nel 2011) che dovrebbero concludersi prima del termine massimo previsto da Biden. Quanto all’Italia, il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha assistito l’8 giugno alla cerimonia di ammaina bandiera tenutasi presso Camp Arena, a Herat, ufficializzando dunque il termine delle operazioni di addestramento dei militari italiani. Roma sta rispettando alla lettera i termini fissati da Biden, rimpatriando velocemente i suoi 800 uomini. Dopo vent’anni di doloroso sacrificio, l’Italia sembra voler chiudere la questione senza avviare un vero e proprio dibattito su quanto fatto e quanto ottenuto nella più grande guerra combattuta dai nostri militari dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.