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Colombia. Una rivoluzione silenziosa

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L’attuale rivoluzione che si sta compiendo in Colombia è silenziosa solo per noi che siamo dall’altra parte del mondo, dove le scelte politiche evidenziano quel che fa comodo soltanto a una correttezza politica “democraticamente” orientata, per la quale gli spari dei mitra possono essere amplificati od ovattati a seconda della convenienza.

Veniamo alla cronaca: il 28 di aprile, dopo la promessa di una riforma economica che impone sacrifici al popolo invitato ad accettare la ragion di Stato, la gente fa sentire la sua voce con uno sciopero generale. Ci si oppone all’imposizione di una IVA sostanziosa che interessa generi alimentari e benzina in particolare. La condizione di partenza è il disagio provocato dalla cosiddetta terza ondata della pandemia che riempie gli ospedali e vuota le case, soprattutto quelle in cui una eccessiva densità abitativa, oltre che alla necessità di procurarsi la sopravvivenza, spinge i suoi abitanti a muoversi in cerca delle risorse per la sopravvivenza. 

Il “paro”, ossia lo sciopero generale, deve essere pacifico ma forte e chiaro affinché venga ascoltato e temuto dal governo del presidente Duque, che tuttavia non viene colto di sorpresa. Infatti, dispone per la difesa del suo ordine la milizia speciale dell’ESMAD (“Escuadrón Móvil Antidisturbio”), ben attrezzata con la sua uniforme da guerre stellari. I raduni della protesta sono fissati in vari punti della città: presso il campus universitario a sud, all’imbocco della via verso Palmira, che conduce all’aeroporto internazionale a Nord. Nella zona centrale presso l’edificio del comune e della cosiddetta “gobernación”. La milizia rimane ad osservare sino a che alcuni gruppi si staccano dai nuclei centrali per attaccare punti nevralgici della città: banche e supermercati in particolare. La ESMAD entra allora in azione per impedire o per favorire, ed agisce anche di persona, magari sotto riconoscibili travestimenti per favorire il caos e la necessaria repressione. Con gas lacrimogeni nel migliore dei casi, con proiettili in altri. Gli scontri durano sino a notte, sì che il 29 la città si risveglia fra le scorie della lunga battaglia nella speranza comune che il tutto possa concludersi con una marcia indietro del presidente che, cavalcando tale speranza, crede di condurre alla ragione governativa l’improvvisata ribellione.

Ma chi si ribella comprende che a questo punto non è possibile fermarsi per un ritorno alla “normalità” imposta, e decide di andare avanti con la protesta. Tanto più che le stesse truppe speciali, con studiata tattica, alimentano il caos ed alzano il tiro: tra il 29 e il30 aprile si spara: l’ordine è di uccidere chi ha l’aspetto di ribelle, oltre che di compiere atti di vandalismo per avere dalla loro parte il sostegno della “gente bene” che, auspicando il ritorno all’ordine, prudentemente rimane in casa. Si gioca, si punta sulla tattica radicale: la milizia speciale e l’esercito sono in campo, per sedare, per aizzare, per uccidere sulla base di chiari ordini. Il potere centrale punta sul grande disordine, sulla paura, sullo spettro di finire come il Venezuela, grazie al quale ha vinto le scorse elezioni presidenziali. Del resto ci sono molti Venezuelani che da profughi percorrono il territorio colombiano elemosinando per la sopravvivenza, e costituiscono per il popolo che li ospita il vivo esempio da non imitare. Meglio un governo corrotto ma che lascia sopravvivere che il pericoloso salto verso il comunismo è stata la scelta del popolo votante, e, visto che si è rivelata vincente (il conservatore Duque, sostenuto dall’ex presidente Uribe vinse con ampio margine le elezioni), il governo attuale insiste a puntare sul medesimo colore per assicurarsi il controllo del paese. 

La reazione però ora è differente: la rabbia di chi si era in certo modo rassegnato, o magari si pensava che lo fosse, non si calma. Gli scontri continuano, mentre la milizia insiste nella tattica del terrore. Si veste in borghese e attacca, svaligia negozi, incendia per dare a questo terrore la più ampia visibilità. Non mancano comunque “autentici” rivoluzionari, ai quali non basta più che il presidente abbia deciso di sospendere i provvedimenti economici: visto che si è entrati in gioco si vuole continuare a giocare puntando più in alto. Si vuole la rinuncia del presidente, la caduta del governo, al quale non basta per sua difesa lo spettro del caos. La povertà, la rabbia hanno trovato la loro via: il fiume scorre e con questo il sangue, presente in scene illustrate da video occasionali che mostrano esecuzioni sommarie, persecuzioni nei confronti di chi è o potrebbe essere un pericoloso oppositore. 

Dall’altra parte però la guerriglia prende coscienza della sua forza, anche perché ad avere armi non sono soltanto i governativi: Cali, città centro di una rivolta che coinvolge altri centri del paese, è armata per sua tradizione. Dal quartiere popolare di Soloé si attacca, si risponde al fuoco, forse si punta a scendere nelle zone nevralgiche della città, e magari si crede in una presa di coscienza di militari che, popolari anche loro, potrebbero non ubbidire agli ordini di uccidere loro “fratelli”.

È passata più di una settimana dall’inizio della protesta, il gioco risulta confuso, l’Europa si pronuncia a bassa voce, gli Stati Uniti attendono sviluppi, i morti, essenzialmente giovani, superano la cinquantina, ed il fiume rivoluzionario procede nel suo avanzare spontaneo. Altre città si sono unite alla protesta: la tattica del terrore non sta funzionando, e i pochi momenti di calma notturna non sono segni di pacificazione, ma momenti per la preparazione di nuovi scontri. Per ora non si prospetta una soluzione politica, che pur sembrerebbe auspicata dalla sinistra ufficiale di Petro, celebrato da alcuni, temuto da altri, che non sembra comunque in grado di assumere la guida di una rivolta che ha trasformato l’allegra città della “salsa” nel nucleo di una rivolta che potrebbe andare ben al di là delle sue mura. 

Luciano Arcella,
Universidad del Valle, Santiago de Cali

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