I rapporti commerciali tra Cina e Stati Uniti nel mondo post-Donald Trump vengono descritti col termine “decoupling”, ossia “disaccoppiamento” e che si riferisce al recente tentativo di disarticolare le catene del valore che legano Washington e Pechino. Il fenomeno, tuttavia, può essere ricondotto anche a preesistenti preoccupazioni statunitensi circa l’ascesa economica cinese. D’altro canto, Donald Trump aveva cavalcato l’idea che l’economia statunitense fosse preda del resto del mondo, Cina in primis. La riforma dell’accordo di libero scambio con Canada e Messico in ottica anticinese, il ritiro americano dal partenariato trans-pacifico, il Quad come strumento di contenimento di Pechino, sono gli esempi più eclatanti di come l’amministrazione di The Donald fosse orientata in particolar modo a contrastare la potenza asiatica, considerata il principale avversario statunitense.
Il presente articolo riproduce parzialmente i contenuti di un contributo dell’autore per l’edizione del 28 luglio di “Scenari”, inserto di geopolitica del quotidiano “Domani”.
A seguito di una serie di dazi imposti reciprocamente, politica commerciale aggressiva tanto da meritarsi l’appellativo di “Trade War”, l’Accordo Fase Uno del 2020 ha poi riportato una parvenza di normalità nei rapporti commerciali bilaterali. Ciononostante, il successore di Donald Trump, Joe Biden, nel febbraio 2021 firmava un ordine esecutivo mirato alla creazione di catene del valore per terre rare, microchip e prodotti biomedici al di fuori della sfera di influenza del Dragone cinese. Lo stesso approccio nel 2022 ha trovato una riconferma nell’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), che ha suscitato reazioni avverse da parte della Cina che ha intensificato le attività militari attorno a Taiwan.
L’isola considerata provincia ribelle da Pechino rappresenta infatti un dossier estremamente caldo nei rapporti Cina-USA, anche per quel che concerne l’integrazione economica regionale. D’altronde, Biden non si è discostato sotto questo punto di vista dal proprio predecessore, mantenendo una relazione fitta e densa con Taiwan, nonostante gli avvertimenti cinesi, e si è finanche spinto nel maggio 2022 a menzionare la possibilità di difesa di Taipei in caso di invasione cinese dell’isola.
Washington ha rinnovato la sua intenzione di assicurarsi catene produttive “sicure” attraverso l’IPEF, ma Taipei non è stata ancora invitata a farne parte. D’altronde, i rapporti economici tra i due Paesi sono “regolati” da un memorandum of understanding del novembre del 2020, all’interno del quale sono stati previsti degli Economic Prosperity Partnership Dialogue i cui obiettivi sono pressappoco sovrapponibili con quelli del framework previsto per la regione.
Si potrebbe pensare che due siano le impalcature economiche che l’America vuole, una per la regione e una per Taiwan perché due sono le esigenze da soddisfare: mantenere la parvenza di rispetto della One China Policy e riscrivere le regole del commercio regionale per rispondere alle sfide poste dalla Cina. Queste ultime sono tuttavia diverse rispetto a quelle che l’amministrazione Obama provò a mettere nero su bianco attraverso la Trans-Pacific Partnership (TPP) per cui si sono resi necessari nuovi strumenti.
È certamente innegabile che le prime due economie del mondo siano entrate ormai da decenni in una fase di competizione serrata. Tuttavia, il loro grado di integrazione economica rende misure come quelle adottate durante la fase più acuta della trade war di complicata e non lineare attuazione, piuttosto che fasi di un’efficacie strategia di logoramento anticinese. Al contrario, è discutibile quanta sia l’ampiezza e l’effetti di tale competizione: il commercio internazionale sperimenta da decenni un processo di deglobalizzazione di cui il decoupling Cina-USA parrebbe essere più un elemento antitetico e a tratti anacronistico, piuttosto che naturale e spontaneo.
Infatti, il fenomeno di riduzione delle catene di globali del valore, incentivato dalla crisi pandemica, non sembrerebbe essere diretto ad una netta divisione tra blocchi o a produrre l’autarchia nazionale, bensì sembrerebbe determinare processi di regionalizzazione che prendono forma nella dimensione economica attraverso, soprattutto, le aree di libero scambio.