Pechino si prepara al Congresso del PCC che si aprirà a breve e che sarà destinato ad incoronare nuovamente Xi Jinping quale Presidente e leader del Celeste Impero. Ancora una volta, la Belt and Road Initiative, la globalizzazione con “caratteristiche cinesi”, il contenimento nel Pacifico e la questione di Taiwan saranno al centro dei lavori.
La BRI e la proiezione di potere globale cinese
“La globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”. Xi Jinping deve aver pensato a questa frase di Henry Kissinger quando nel 2013 ha annunciato per la prima volta il grande progetto della Belt and Road Initiative (BRI). E, ancora, nel 2017 a Davos al “Forum economico mondiale”, Xi Jinping si è presentato alla comunità economica come “alfiere della globalizzazione”, rifiutando il protezionismo in salsa trumpiana. A quel ruolo dominante degli Stati Uniti però, Xi Jinping ha sostituito quello del (fu) Regno di Mezzo. Secondo la retorica del “sogno cinese”, la BRI ha lo scopo di rafforzare i legami e le comunicazioni pacifiche tra Oriente e Occidente con il fine di generare una “comunità con un futuro condiviso per l’intera umanità”. Soprattutto dopo il 2017, la Cina di Xi è diventata il motore di una nuova visione di globalizzazione “con caratteristiche cinesi”, alternativa a quella statunitense/occidentale. Difatti, ormai in ogni occasione, i dirigenti della PRC sottolineano come questa intenda essere rispettosa dell’assetto multipolare e completamente disinteressata ad esportare il suo modello politico (“non si può sradicare un germoglio per aiutarlo a crescere”). In quest’ottica, Pechino propone non trattati (che nell’immaginario storico asiatico suonano un po’ come “imposizioni”) ma una “piattaforma di cooperazione”. Questo orientamento è stato confermato di recente in occasione del Forum di Boao per l’Asia, nell’aprile del 2022, in cui Xi Jinping ha proposto la Global Security Initiative. Capisaldi di questo progetto sono: rispetto della sovranità dell’integrità territoriale e non ingerenza negli affari interni dei singoli paesi. “La sovranità territoriale è la pietra angolare delle norme delle moderne relazioni internazionali. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, sono membri uguali della comunità internazionale”. Queste sono le parole del ministro degli Esteri cinese Wang Yi contenute in un comunicato rilasciato due giorni dopo l’inizio dell’offensiva russa in Ucraina. Una testimonianza di come Pechino intenda porsi alla testa dei tutti quei Paesi che soffrono l’egemonia americana. Una non ingerenza garantita a patto che si rispetti il principio di “una sola Cina” ovvero riconoscere Taiwan come parte integrante del territorio cinese. La BRI per ora procede spedita salvo qualche battuta d’arresto ed è destinata ad allargare le maglie dei paesi aderenti, specie nel continente che, negli ultimi anni, ha visto un crescente interesse da parte di Pechino: l’Africa. D’altronde, lo sviluppo della BRI “via mare” (ovvero quel tratto che dall’Indo-Pacifico può consentire di raggiungere il Mediterraneo mediante il Mar Rosso e il canale di Suez) ha avuto come conseguenza quella di permettere al governo cinese di penetrare nel continente attraverso massici investimenti nella costruzione di infrastrutture (specie nelle attività portuali). Si pensi, in questo senso, al ruolo di Gibuti. Qui, nel 2017, il governo di Pechino ha deciso di stabilire la sua prima base militare extraterritoriale suscitando preoccupazione e scalpore da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Quel che è certo è che la Cina sta ampliando la sua sfera di influenza e la sua presa in Africa e nel Pacifico. Quest’ultimo è considerato l’anello debole della strategia cinese e luogo di confronto con un altro attore geopolitico fondamentale: gli Stati Uniti.
Le sfide di Pechino nel Pacifico e le reazioni di Washington
Nel maggio scorso, Pechino ha inviato per un tour nel Pacifico il suo ministro degli esteri Wang Yi, in occasione del quale ha incontrato i rappresentanti di stati insulari quali Papua Nuova Guinea, Samoa ecc…cui ha proposto un “patto per il Pacifico”. Il patto propone, a circa dieci stati del Pacifico, di rafforzare i “legami commerciali ed economici” e la “sicurezza regionale”. Ma il contenuto di questa partnership, che va aldilà di queste semplici frasi di circostanza, ha intimorito più di qualche stato, in particolare la Micronesia. In particolare, sospetti e timori sono scaturiti dagli accordi proposti in materia di sicurezza informatica (data l’esperienza della Cina nella sorveglianza di massa, si guardi al caso dello Xinjiang) e dell’invito espresso da parte di Pechino di partecipare al programma meteorologico Fengyun che permetterebbe di accedere a dati strategici civili e militari dei paesi coinvolti. Analoghe preoccupazioni sono state espresse anche da parte degli Stati Uniti che, attraverso le parole del Segretario di Stato Anthony Blinken, hanno avvertito del rischio di concludere “accordi negoziati in un processo affrettato e poco trasparente”. La strategia del Dragone potrebbe risultare utile per poter aggirare quel contenimento nel Pacifico che gli Stati Uniti, ormai da diversi anni, stanno cercando di attuare nel tentativo di isolare diplomaticamente Pechino e preservare gli equilibri di forza nel Pacifico. Non solo, nel febbraio 2022 (mentre la Russia di Putin preparava l’invasione dell’Ucraina) l’amministrazione Biden ha pubblicato un documento denominato Indo-Pacific Strategy ricordando come questa zona sia “essenziale per assicurare sicurezza e prosperità” degli Stati Uniti. In sintesi, Washington ha ben chiaro dove si giocherà la partita del futuro, ovvero in questa parte del mondo. Il confronto tra Stati Uniti e Cina nel Pacifico è oggi più serrato che mai e sconta un fattore non trascurabile per entrambi i paesi ovvero Taiwan.
La questione di Taiwan e gli interessi cinesi
Se ci si imbatte in una cartina della Cina fisica o politica anche nella più sperduta scuola dell’entroterra cinese, ci si accorgerà che questa presenta una differenza con le carte che solitamente siamo abituati a consultare. In queste carte, infatti, l’isola di Formosa fa parte a pieno diritto della Cina continentale. I presupposti storici e politici di queste scelte sono noti, ma da quando è salito al potere Xi Jinping, il tema della riunificazione dell’isola alla Cina ha assunto un ruolo prioritario essendo stato indicato dal leader quale uno degli obiettivi da raggiungere entro il 2049, centenario dalla fondazione della PRC. Pechino promette, in cambio della riunificazione, l’adozione del principio “un Paese, due sistemi” già adottato per Hong Kong ma che per ora non sembra aver raccolto il consenso e il favore della popolazione di Taiwan. L’isola, agli occhi della Cina, assume una posizione strategica per poter competere nel Pacifico e sfidare il potere talassocratico statunitense. Questo, Washington lo ha capito bene. Nel corso degli anni, gli Stati Uniti sono divenuti i principali sponsor dell’indipendenza dell’isola e coltivato rapporti bilaterali utili a vendere armi, per un valore che supera i 46 miliardi di dollari. Non solo, la precedente amministrazione Trump ha approvato, nel 2018, il Taiwan Travel Act che permette ad esponenti di alto livello del governo statunitense di visitare l’isola. Proprio questo strumento è stato utilizzato di recente dalla Speaker della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi per recarsi in visita a Taiwan, suscitando le irritazioni di Pechino che ha risposto con delle imponenti esercitazioni militari attorno all’isola e la sospensione delle attività di cooperazione in diversi settori, tra cui anche i negoziati che riguardano il cambiamento climatico. Un gesto di forza volto a ribadire la linea di Pechino improntata al principio di “una sola Cina” ma utilizzato da Xi Jinping proprio alla vigilia del Congresso per riaffermare la sua leadership e impedire ogni possibilità di dissenso nel Partito.
Conclusioni
La Cina, dunque, si presenta alla vigilia del XX Congresso del PCC con numerose sfide da affrontare e con una grande novità. Il precedente Congresso tenutosi nel 2017 ha dimostrato che Xi Jinping rimarrà saldamente al potere ancora per molto, dato che una modifica alla Costituzione gli consentirà di essere rieletto (in pratica) vita natural durante. Non solo, ma stando ai precedenti, Xi Jinping avrebbe dovuto designare un suo possibile successore già nel 2017, magari promuovendone la nomina nel Comitato permanente del Politburo, come già era accaduto con lui nel 2007. Tutto, all’epoca, tacque. Anzi, il suo “pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” venne elevato al pari di quello del Grande Timoniere, Mao Zedong, qualcosa di mai accaduto prima di allora. Non solo, le grandi novità del 2017 furono anche legate alla volontà da parte di Xi Jinping di ridare centralità al PCC, quale strumento per mantenere saldamente il controllo fino a quando non si fossero superati gli ostacoli che ne avrebbero potuto minare la stabilità, a partire dalla ingente lotta alla corruzione. La scelta di Xi ha origini lontane e affonda le sue ragioni nel cosiddetto “secolo delle umiliazioni” durante i quali la Cina perse la sua sovranità territoriale in favore delle potenze occidentali. In conclusione, il sogno cinese, nell’ottica del suo leader, ha permesso e permette alla Cina di sanare le ferite di quell’epoca e così garantirle di tornare a ricoprire quel ruolo di primo piano che le spetta all’interno dell’arena internazionale.