Lo scorso 3 giugno, due navi, una di Pechino e l’altra di Washington, sono quasi arrivate alla collisione nelle acque del Mare Cinese Meridionale, vicino allo stretto di Taiwan. Secondo la testimonianza di un inviato di Global News, in viaggio sulla fregata canadese che stava partecipando alle esercitazioni, sarebbe stata l’imbarcazione cinese ad aver intenzionalmente “tagliato la strada” alla Us Chung-Hoon, cacciatorpediniere americano, costringendo quest’ultimo a rallentare per evitare una scontro.
Cosa ci facevano delle navi americane e canadesi nello stretto di Taiwan?
La presenza di Stati Uniti e Canada nelle acque del Mare Cinese Meridionale era dovuta all’esercitazione congiunta nelle acque internazionali del Mare Cinese del Sud. Il Comando indo-pacifico degli Stati Uniti ha dichiarato che, “in conformità con il diritto internazionale”, il cacciatorpediniere americano e la nave da guerra canadese erano impegnate in un attraversamento ordinario di un tratto di mare nello Stretto di Taiwan, “in acque dove si applicano le libertà di navigazione e sorvolo in alto mare”. L’operazione, come dichiarato dalla flotta americana, testimonierebbe “l’impegno combinato USA-Canada per un Indo-Pacifico libero e aperto”, punto caro alla politica estera statunitense e un pilastro centrale della Free and Open Indo-Pacific strategy di Washington.
Non è infatti la prima volta che gli Stati Uniti conducono esercitazioni congiunte nel Pacifico con i suoi partner e alleati regionali, quali Corea del sud, Australia, Singapore, Filippine e altri paesi dell’ASEAN. Questi incontri militari, che coinvolgono una serie di nazioni con un interesse comune nella sicurezza e nella stabilità della regione, sono un segno tangibile dell’impegno costante della superpotenza statunitense nel rafforzare i legami di cooperazione e nell’affrontare le sfide considerate comuni che caratterizzano il panorama geopolitico del Pacifico. Tale collaborazione riflette inoltre la volontà di promuovere un Indo-Pacifico sicuro e aperto, basato sul rispetto del diritto internazionale e sulla promozione di valori condivisi.
Tuttavia, questa pratica ha spesso scatenato l’ira di Pechino, che da sempre accusa Washington di minare la stabilità della regione e di attuare un accerchiamento del paese. A marzo di quest’anno, a seguito dell’accordo negoziato dall’AUKUS (l’alleanza Australia-Regno Unito-Stati Uniti) per la fornitura di sottomarini nucleari all’Australia, il presidente cinese Xi Jinping e il suo ministro degli Esteri Qin Gang avevano accusato il Presidente Biden di essere ancorato ad una “mentalità da guerra fredda” e di dispiegare una strategia di “contenimento” nei confronti della Cina.
Le accuse di Pechino
Anche in quest’ultima occasione, l’esercitazione congiunta in quella delicata porzione di mare ha suscitato l’indignazione di Pechino, la quale ha risposto, secondo Washington, in modo provocatorio, portando la situazione sull’orlo del disastro. A distanza di un giorno dall’incidente, il ministro della difesa cinese, Li Shangfu, durante il suo discorso al vertice sulla sicurezza “Shangri-La Dialogue” a Singapore, ha accusato gli Stati Uniti e i loro alleati di destabilizzare la regione con la loro presenza nello stretto, cercando di provocare un conflitto unicamente per “interessi personali”. Secondo le parole di Li, la presenza delle navi da guerra statunitensi e canadesi rappresenta soltanto una “provocazione” e non un “passaggio innocente“.
In risposta alla continua presenza militare degli Stati Uniti nella regione, negli ultimi anni la Cina ha intensificato le sue attività militari nel Mar Cinese Meridionale, come la conduzione di esercitazioni navali e altre manovre militari in prossimità dello Stretto di Taiwan e dell’area della “nine-dash line”, nonché la costruzione di avamposti militari e industriali sulle sue isole artificiali. Tali azioni, non solo rappresentano una provocazione dalla prospettiva statunitense e dei suoi partner regionali, ma fungono anche da dimostrazione di potenza e determinazione da parte della Cina, riflettendo l’intenzione Pechino di consolidare la propria influenza nella regione e di spingere Washington fuori dell’Indo-Pacifico.
La necessità di un “Code of conduct”
Ad ogni modo, se da una parte Pechino accusa Washington di minare la stabilità della regione, dall’altra le sue continue mosse provocatorie, come il recente episodio in cui il caccia cinese J-16 ha tagliato bruscamente la strada ad un aereo dell’aeronautica statunitense, non fanno altro che innalzare ulteriormente il livello di instabilità nella regione. Che tali azioni siano giustificate o meno, entrambe le parti stanno contribuendo ad alimentare l’escalation della tensione attraverso reciproche provocazioni. Sebbene entrambe le superpotenze dichiarino di voler evitare un conflitto aperto, i loro sforzi in tal senso sono minimi.
La regione del Mar Cinese Meridionale, in particolare lo Stretto di Taiwan, è un’area caratterizzata da una tensione politico-militare significativa. Questa tensione è innescata principalmente dalla complessa questione taiwanese e dalla presenza delle due principali potenze militari con interessi sovrapposti nello scenario asiatico, soprattutto dal punto di vista strategico-militare. A questo, si aggiungono le continue interazioni negative tra le parti coinvolte, provocate, in particolar modo, da una narrazione politica interna in entrambi i paesi, che dipinge l’altro come una minaccia esterna, alimentando ulteriormente la tensione e l’ostilità. Questa dinamica di percezione reciproca come nemico potenziale e latente contribuisce a creare un circolo vizioso di diffidenza e risposte reattive e provocatorie, che unicamente accresce l’escalation di tensione nell’area. Non a caso, nelle acque che separano la Repubblica Popolare Cinese dall’isola considerata ribelle, da decenni si susseguono esercitazioni militari sia da parte cinese, come le recenti manovre dell’aprile di quest’anno, sia da parte statunitense. In tali scenari un minimo errore di calcolo può innescare un’escalation del conflitto, con conseguenze potenzialmente catastrofiche
Data la crescente e multidimensionale instabilità regionale, risulta essenziale stabilire un codice di condotta che impedisca che episodi come quelli recentemente verificatisi sfocino in un confronto diretto. Già nel 2014 era stata avanzata una proposta di un Code of Conduct (CoC), presentata dall’allora presidente taiwanese Ma Ying-jeou. L’idea di Ma, di un East China Sea Code of Conduct, prevedeva la negoziazione di un codice di condotta tra Taipei, Pechino e Tokyo al fine di evitare incidenti durante le prove militari nell’area dello stretto di Taiwan. Il codice proposto, simile al codice precedentemente discusso tra i vari paesi dell’ASEAN e la Cina, per gestire le rivendicazioni concorrenti nel Mar Cinese del Sud, aveva l’obiettivo di regolamentare lo spazio aereo e le acque del Mar Cinese Orientale, nonché di risolvere le controversie relative alle zone di identificazione della difesa aerea. Tuttavia, causa della complessità e delle dinamiche complicate tra i tre paesi coinvolti, tale progetto non si è mai concretizzato, lasciando la situazione con un alto livello di instabilità.
Ora più che mai, alla luce del crescente livello di tensione nella regione, un tale codice che coinvolga le principali potenze militari della regione fungerebbe da importante salvaguardia per mitigare i rischi e garantire un, seppur precario, status quo. Un codice di condotta stabilirebbe linee guida e protocolli per il comportamento di tutte le parti coinvolte, con l’obiettivo di prevenire calcoli errati, incomprensioni e incidenti che potrebbero degenerare in un vero e proprio conflitto armato. Fornirebbe, inoltre, un quadro per misure di comunicazione, trasparenza e riduzione dell’escalation, promuovendo la stabilità e riducendo le possibilità di scontri involontari e provocazioni fin troppo rischiose.
La formulazione di un corpus di norme condivise assume un’importanza ancor maggiore se si considera l’enorme ruolo svolto da queste. Nel contesto accademico, studiosi come Martha Finnemore e Kathryn Sikkink, sostengono che le norme esercitano un’influenza sul comportamento degli stati e sulla configurazione delle relazioni internazionali. Mediante il processo di interiorizzazione, queste si insediano profondamente nelle credenze e nei modelli comportamentali dei vari attori, producendo una trasformazione degli interessi e delle identità statali che si traduce in un mutamento politico duraturo. Ciò pone anche una sfida ai tradizionali paradigmi realisti tradizionali, che si concentrano esclusivamente sulla dimensione del potere. Sebbene un tale scenario sia alquanto improbabile, un codice di comportamento condiviso potrebbe persino rappresentare il primo passo verso un sovvertimento delle relazioni tra potenze storiche avverse come Cina e Stati Uniti. Ad ogni modo, almeno per ora, tali norme avrebbero l’ambizione di portare ad una stabilizzazione della regione ed evitare un’escalation.