Riaffacciatasi nello scenario internazionale dopo la fase di “disbrigo degli affari correnti” coincisa con la tragica esperienza pandemica, la Cina sembra essere ingaggiata in un confronto tra visioni del mondo sempre più evidente con gli Stati Uniti. Alle dicotomie occidentali (“democrazie contro autocrazie”), la Cina oppone sempre più spesso una visione, concretizzata anche nei dodici punti sulla pace in Ucraina, basata sul multilateralismo e sul bilanciamento tra globalizzazione, diritto internazionale e “preoccupazioni di sicurezza” di tutti gli Stati.
Si inserisce in questo contesto un documento, “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”, redatto dal Ministero degli Esteri cinese in cui, con un approccio proposto come storico, viene avanzata un’interpretazione assolutamente negativa della posizione di preminenza degli Stati Uniti nel sistema internazionale. Il documento sembra sistematizzare i temi tipici della retorica cinese antiamericana identificando cinque espressioni dell’egemonia statunitense, una diretta conseguenza, secondo quanto scritto, della Seconda guerra mondiale e causa, a sua volta, dell’istituzione di un sistema internazionale basato sull’abuso di potere e della costruzione di un “rule-based order” in realtà funzionale all’interesse americano.
Le dimensioni dell’egemonia
Il documento si propone espressamente di «svelare l’abuso dell’egemonia compiuto dagli Stati Uniti», di screditare, dunque, l’egemone, oggi tornato effettivamente a proporre con forza una visione del mondo “morale”, manichea, imperniata sulla dicotomia tra democrazia e autoritarismo, definita in questa sede «falsa».
La “superiorità morale” degli Stati Uniti viene attaccata evidenziando la dimensione politica dell’egemonia, sostanziata dall’uso dell’influenza a scapito dell’indipendenza del resto della comunità internazionale. Dopo aver citato l’ormai nota «mentalità da Guerra Fredda», il documento tratta, con un sacrificio della complessità non da poco, la dottrina Monroe, le “rivoluzioni colorate” e le primavere arabe come sfumature geografiche della medesima volontà statunitense di avanzare i propri interessi strategici interferendo negli affari interni altrui «nel nome della promozione della democrazia». Oltre a queste pratiche, viene anche criticato l’approccio americano al multilateralismo, basato, si legge, sulla costruzione di «piccoli blocchi», in particolare nell’area “indo-pacifica”. Interessante notare come il documento evidenzi la volontà statunitense di «forzare gli Stati a schierarsi»: evidente il riferimento critico alle pratiche di contenimento, che la Cina sente di subire, basate sulle iniziative di sicurezza regionali promosse da Washington nell’Indo-Pacifico.
L’egemonia si concretizza anche sotto l’aspetto militare. Il documento ripercorre gli “abusi di potere” commessi dagli Stati Uniti a partire addirittura dal 1776, una critica para-storica che sembra riferirsi ad un presunto “carattere nazionale” americano espresso allo stesso modo nel massacro dei nativi americani e, due secoli dopo, nella guerra in Siria. A supporto della tesi, il documento cita anche le dichiarazioni di settembre 2022 del ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu contro gli interventi in Siria, Afghanistan e Libia: un tentativo, forse, di sfruttare una delle crepe più ampie nel blocco nordatlantico.
Strettamente connessi, il terzo e il quarto punto affrontano la questione dell’egemonia economica e tecnologica. Nel farlo, vengono usate le parole chiave «saccheggio e sfruttamento» e «monopolio e repressione» in riferimento al dominio internazionale del dollaro, ai regimi sanzionatori e alla “militarizzazione” di alcune tecnologie, in particolare dei chip e dei semiconduttori. Il corollario della preminenza tecnologica è la capacità di sorveglianza: rigirando al mittente le accuse di spionaggio legate al caso dei palloni aerostatici spia, il ministero cinese ricorda del controllo americano sui dispositivi di Angela Merkel, allora cancelliera tedesca.
L’esercizio di vivisezione dell’egemonia americana si conclude con un passaggio sulle «false narrazioni» diffuse attraverso l’egemonia culturale. Il documento denuncia «l’americanizzazione» dei media e dell’industria dello spettacolo, accusando Washington di «manipolare l’informazione» e di applicare, insieme all’Europa, «doppi standard», da un lato, predicando il diritto alla libertà di stampa e, dall’altro, censurando i media russi.
L’approccio cinese all’egemonia
Al di là dell’ovvio scopo propagandistico, funzionale alla consueta retorica antiamericana cinese, il documento risulta interessante poiché mette in luce alcuni tratti dell’approccio di Pechino al concetto di egemonia, profondamente normativo. Quanto scritto, infatti, può essere ricondotto ad alcuni riferimenti ideologici e al contempo accademici.
In primo luogo, i cinque punti di critica si affiancano idealmente alla produzione di Wang Huning, attualmente quarto membro del Comitato Permanente del Politburo e pensatore di spicco del Partito. In particolare, il suo libro pubblicato nel 1991 America against America, il resoconto di un viaggio “à-la-Tocqueville” compiuto dal giovane Wang due anni prima, ben si associa alle dure parole usate dal ministero degli Esteri. Nel libro Wang mette in luce le contraddizioni del capitalismo atomizzante statunitense, comparandolo al “fenomeno Cina”, in un esercizio paragonabile alla comparazione, presente nel documento, tra i principi che animano la politica estera cinese e quella americana: rispettivamente, «dialogo e partnership» e «confronto e alleanze».
Il confronto col concetto di egemonia sembra attingere al pensiero politico, da un lato, di Qin Yaqing e, dall’altro, di Yan Xuetong. Del primo, un costruttivista della Shandong University, sembra essere richiamata la tesi della caratterizzazione del sistema internazionale come intrinsecamente egemonico: l’ordine internazionale, come spiega anche il documento, sarebbe frutto dello squilibrio di potere in favore di Washington e nasconderebbe, nella sua stessa costituzione, gli interessi dell’egemone. La teoria “relazionale” della politica globale di Qin, molto vicina al neo-tianxianesimo, ben si coniuga con l’idea di un mondo multilaterale e multicentrico esposta nelle conclusioni del documento, con particolare riferimento al concetto di inclusività da opporre ai «club» esclusivi a trazione americana. Al contrario del ministero degli Esteri, però, Qin ritiene la stagione dell’egemonia americana già conclusa con la pandemia di Covid-19, un esito a cui, secondo il documento, è «inevitabile» che si giunga.
Da Yan Xuetong, invece, la produzione ministeriale mutua l’insistenza sull’alternativa “confuciana” all’ordine occidentale. Infatti, l’ordinario della Tsinghua University, fondatore del paradigma del Realismo morale, ritiene l’ordine sinocentrico (inteso come la struttura internazionale, o meglio regionale, precedente alle guerre dell’oppio e al secolo dell’umiliazione) fondato sull’”autorità umana”, un concetto tipicamente confuciano opposto all’idea di egemonia occidentale e normativamente usato come idealtipo a cui tendere nella politica estera cinese.
Che sia da considerarsi una potenza revisionista dell’ordine liberale o meno, la Cina si professa comunque una potenza diversa dagli Stati Uniti. Attingendo al terzomondismo maoista e denghista, per esempio, la Cina tende a sottolineare l’impegno “solenne” a “non perseguire l’egemonia”, una promessa ripresa anche da Xi Jinping all’apertura del XX Congresso del Pcc.Il documento si può considerare, dunque, parte di un più ampio apparato retorico che punta a depurare l’ascesa cinese dai sospetti che la Cina, approfittando del cambio nella distribuzione del potere globale, cerchi di sostituirsi al “famelico” egemone statunitense. Come sottolineato da Wang Yi alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, Pechino e il Partito si propongono come il garante della globalizzazione e del multilateralismo, principi più che processi che vengono considerati erosi dal comportamento descritto come predatorio dell’egemone globale.