Nel lontano 1958, in una Cina profondamente diversa da quella odierna, Mao Tse-tung lanciò la campagna contro i quattro flagelli, chiamando i contadini a prendere le armi contro i ratti, i passeri, le mosche e le zanzare che infestavano i terreni, compromettendone i raccolti. Anziché portare a risultati prosperi, l’iniziativa maoista si tradusse in una vera e propria catastrofe ecologica e nell’inizio di un’innumerevole serie di carestie che prostrarono la popolazione cinese. Oggi, dopo sessant’anni, Pechino è un attore internazionale imprescindibile per la lotta al cambiamento climatico e, negli ultimi anni, ha promosso iniziative finalizzate a limitare i livelli d’inquinamento del Paese, intercalate da promesse sbiadite e da progetti di difficile realizzazione.
Il rapporto uomo-natura e la società armonica
Le prime misure di Zhongnanhai per contrastare l’inquinamento risalgono ai primi anni Duemila, sebbene esigui tentativi per contrastare le conseguenze dello sviluppo economico selvaggio fossero già stati fatti nel 1978 con l’inaugurazione del progetto “Grande muraglia verde”, un ampio programma di riforestazione per le zone che avevano subito una desertificazione a seguito delle tempeste di sabbia (si veda La Cina in otto parole, di B. Gallelli). La Grande muraglia verde, nata con l’intenzione di contrastare la siccità e trasformare i terreni aridi in coltivabili, ha avuto conseguenze nefande a causa del deterioramento delle falde acquifere e della distruzione della biodiversità. Il Presidente della RPC Hu Jintao, in carica dal 2003 al 2012, è stato il primo presidente cinese a porre l’accento sulla salvaguardia dell’ambiente per assicurare il benessere del popolo e, a tal fine ha annunciato il concetto di società armonica nel 2004 all’interno della quale il legame uomo-ambiente avrebbe rivestito uno spazio centrale, allo sviluppo economico si sarebbe dovuto accompagnare uno sviluppo spirituale. L’esigenza di insistere sullo sviluppo equilibrato e armonico proveniva dal timore che le disuguaglianze sociali avrebbero potuto incentivare proteste pericolose per la stabilità del Partito comunista cinese.
Sviluppismo o ecologismo?
Xi Jinping ha ottenuto il suo primo mandato nel 2012 e, sin da subito, ha palesato la volontà di proseguire sul tracciato di Deng Xiaoping e ha stabilito che il socialismo con caratteristiche cinesi adattato alla nuova era, sarebbe stato posto a guida dell’azione del PCC e del governo. Il leader si è presentato, quindi, come il naturale prosecutore della dottrina economica denghista che coniuga il socialismo politico con il progresso economico. In occasione del XIX Congresso nazionale del PCC, Xi Jinping ha annunciato altresì la teoria del sogno cinese, la cui realizzazione richiede ritmi serrati di produzione e il proseguimento della crescita economica. Proseguire su questa strada, però, ha costi ecologici molto alti e i danni causati finora ne sono una dimostrazione.
L’Airpocalypse cinese
Nel 2013, il livello di PM 2,5 ha toccato 800 punti, sebbene il massimo fissato nella scala di misura dell’inquinamento fosse 500 (si veda The Third Revolution: Xi Jinping and the New Chinese State, di E. Economy). Gli alti livelli di inquinamento hanno fatto sì che sia il popolo cinese che i media abbiano cominciato a parlare di una vera e propria Apocalisse, visti anche i continui allarmi lanciati dal governo che ha intimato alla popolazione di restare nelle proprie abitazioni per evitare di inalare polveri sottili. Nel 2015, un report dell’OMS ha rivelato che nessuna città cinese fra quelle prese in esame (all’incirca trecento) rispettava requisiti minimi per la qualità dell’aria visto il massiccio ricorso a combustibile fossile e vista l’espansione della produttività del ceto medio che vive nelle città (Ibidem). Accanto all’inquinamento atmosferico, a destare maggiori preoccupazioni è la riduzione delle risorse idriche: il Ministero per la salute ambientale ha dichiarato che, al 2015, circa 280 milioni di cinesi non hanno un accesso sicuro all’acqua a causa del decadimento delle infrastrutture (Ibidem). L’incidenza che l’inquinamento di aria e acqua ha sulla salute dei cittadini è drammatica e, nonostante la promessa del duo al potere Li Keqiang-Xi Jinping di restituire al popolo cieli blu, Pechino è ancora molto lontana dal realizzare il chimerico obiettivo di raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060.
Pechino e Washington
Dopo l’annuncio del ritiro degli USA dagli accordi di Parigi fatto dall’ex Presidente Donald Trump nel 2017, il Primo ministro della RPC, Li Keqiang, aveva ribadito l’intenzione di tenere fede agli accordi e di impegnarsi nella lotta al cambiamento climatico. Questi eventi avevano determinato un clima di rinnovata fiducia internazionale nei confronti della Cina, che veniva indicata anche all’estero come una potenza responsabile e su cui fare affidamento per la lotta al cambiamento climatico. Tale considerazione è stata minata negli ultimi mesi vista l’assenza di Xi Jinping al vertice G20, tenutosi a Roma a fine ottobre 2021, e alla ventiseiesima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, almeno fino all’arrivo del negoziatore cinese Xie Zhenhua. Si intuisce, pertanto, da parte di Pechino la mancanza di un’autentica volontà nell’adozione di misure tese a ridurre il consumo di carbone e a incentivare l’impiego di risorse rinnovabili. Sebbene, infatti, sia stato annunciato un accordo fra USA e RPC, la cui applicazione resta ancora molto vaga, c’è da chiedersi quanto la Cina sia disposta a cooperare con Washington per ridurre le emissioni a effetto serra.