All’indomani del XX Congresso del Partito Comunista Cinese e dell’inizio del terzo inedito mandato di Xi Jinping, la rinnovata leadership cinese si trova a fronteggiare sfide sempre più pressanti in materia di politica estera. Proprio nel momento in cui Xi delinea un progetto politico che a breve termine guardi soprattutto alle sfide interne al paese, nel mondo aumenta l’instabilità, a cui il Partito, come già detto, guarda con timore e frustrazione. In particolare, tre sono le contingenze che frenano il perseguimento dell’agenda strategica internazionale della “nuova era”. Ad intrecciarsi sono, infatti, il dossier europeo con la visita in Cina di Scholz e la guerra in Ucraina, le tensioni crescenti al di là del fiume Yalu tra Pyeongyang e Seul e, non da meno, la stretta statunitense su alcuni settori chiave (biotecnologico e dei semiconduttori) dell’industria avanzata cinese.
Stabilità e gestione delle crisi
Osservare la reazione cinese agli eventi dell’attualità è forse poco utile per comprendere la grand strategy di Pechino, ma aiuta a cogliere l’attuale postura politica e alcune linee costanti nella cultura strategica e diplomatica del paese. È innegabile, ad esempio, una certa continuità nell’approccio alla gestione della crisi coreana e della guerra in Ucraina. A tal proposito, risultano esemplificative due dichiarazioni arrivate a brevissima distanza. Sulla crisi coreana, Zhao Lijian, portavoce del Ministero degli Esteri, ha espresso la preferenza cinese per soluzioni negoziali che prevengano l’escalation e ha invitato le parti a non “adottare misure unilaterali” che accrescano le tensioni, tra cui le sanzioni e le esercitazioni militari sostenute dagli Stati Uniti unitamente all’alleato sudcoreano. Ci si chiede, tuttavia, se tale (nuova) postura possa essere mantenuta dalla Cina in caso di test nucleare nordcoreano. La linea rimane evidentemente simile a quella seguita nella gestione della guerra iniziata in Europa con l’invasione del 24 febbraio: è impossibile arrivare alla pace con sanzioni e misure “escalatorie”. Il premier uscente Li Keqiang, al termine dell’incontro con il cancelliere tedesco Scholz, ha meglio specificato, in conformità con quanto sopra, come la stabilità della regione (est europea, n.d.r.) e del globo non debba essere minata ulteriormente dalla “crisi”, concepita come un pericolo esistenziale per “la produzione internazionale e le supply chains” di cui l’economia cinese ha, nonostante gli sforzi profusi per realizzare la dual circulation, immensamente bisogno.
È nell’ottica del pragmatismo economico, condiviso tanto dalla Germania quanto dalla Cina, che va letta la visita di Scholz, accompagnato dagli amministratori delegati di Volkswagen, BMW e Siemens. Cercare una nuova convergenza con l’Europa sembra auspicabile per Pechino, mentre l’interesse più immediato è che le relazioni sino-europee non vengano influenzate da quelle transatlantiche, a tutto beneficio di catene logistiche e di valore. In questo senso, il parziale revival dell’approccio “à-la-Merkel” sembra essere stato apprezzato da Pechino, seppur riveduto e corretto, forse ambiguamente, alla luce di problematiche pressoché inaggirabili per qualunque leader occidentale. Meno fraintendibile, invece, un’importante dichiarazione congiunta tra i due leader che riaffermano preoccupazioni e posizioni in merito alle minacce nucleari russe: nel resoconto cinese si legge che “la comunità internazionale dovrebbe […] opporsi alla minaccia o all’uso delle armi nucleari e sostenere che […] le guerre nucleari non vadano combattute”. Un messaggio, dunque, per il Cremlino, teso a riaffermare quanto già reso chiaro in merito all’uso del nucleare e al tema del disarmo nel Joint Statement sino-russo del febbraio scorso. La già ferma opposizione cinese all’uso dell’atomica viene dunque ribadita alla luce delle citate minacce, in questo caso, però, escludendo riferimenti a pratiche transatlantiche considerate pericolose e provocatorie in tal senso (ad es. nuclear sharing tra paesi NATO). La presa di posizione della Cina sul tema non sorprende. Tuttavia, al netto della cortesia diplomatica nel non menzionare il presunto ruolo provocatorio della NATO, il riaffermare questi principi in senso assoluto potrebbe indicare una crescente preoccupazione per le mosse della Russia. Se in un febbraio ormai lontano Mosca sembrava un “partner irrinunciabile” per Pechino, oggi, forse, viene percepita anche come fonte di instabilità e ostacolo all’armonia internazionale.
Tech war: semiconduttori e biotecnologie
Presumibilmente, la medesima percezione negativa riguarda anche gli Stati Uniti. Dal punto di vista cinese, tanto nella risposta all’invasione russa quanto agli atti di forza nordcoreani, Washington ha perseguito azioni ritenute contrarie al principio di non ingerenza e, più in generale, alla ricerca senza compromessi della pace (negativa) cercata da Pechino. La relazione bilaterale è stata ulteriormente compromessa dalle menzionate decisioni statunitensi su semiconduttori e industria biotecnologica. Rispetto ai primi, era prevedibile che l’amministrazione Biden avrebbe adottato misure restrittive tese a rallentare lo sviluppo e la produzione cinese di tecnologie avanzate: il catching-up in materia di advanced computing è temuto dagli USA e le misure di controllo dell’export seguono esplicitamente la logica della sicurezza nazionale.
In materia di biotecnologie, invece, le catene di valore transnazionali, un bene comune globale considerando il potenziale salvavita della ricerca, sono state volontariamente sacrificate sull’altare della crescita interna del settore e della riduzione della dipendenza dalla cooperazione transpacifica dello stesso. Nonostante i costi per le aziende del settore e il rischio per un settore intrinsecamente globale, la Casa Bianca ha deciso di supportare il mercato interno (“the U.S. Biotechnology Ecosystem”), anche in funzione della tutela degli standard in materia di biodata security e di riduzione del rischio biologico. Una mossa, quindi, dai caratteri protezionistici che assesta un duro colpo agli investimenti settoriali cinesi e ad un meccanismo di divisione del lavoro efficiente e consolidato, specie in un settore d’investimenti ad alto rischio: la grande quantità di dati reperibili in Cina e la sostenibilità dei costi dei trial clinici svolti nel paese, infatti, sono, o meglio erano, complementari ai processi di ricerca e sviluppo e di commercializzazione localizzati prevalentemente negli Stati Uniti, con benefici evidenti in materia di costi e avanzamento tecnologico.
Il provvedimento statunitense risulta controverso dal momento che, nonostante le forse legittime preoccupazioni in materia di privacy e trasparenza nella raccolta dei dati, il settore biotecnologico risulta dipendente dalla propria globalizzazione. Oltre alle potenziali conseguenze sulla ricerca scientifica, c’è il rischio di compromettere un canale di cooperazione transnazionale rilevante anche per i rapporti diplomatici tra USA e Cina, specialmente alla luce del deterioramento competitivo degli stessi. Quello appena nato potrebbe davvero rappresentare un “unsustainable border”, un confine, in questo caso, non fisico ma interiorizzato dai network scientifici impegnati nel miglioramento dei trattamenti medici (e non solo) globali.
Lungo e breve termine
È pertanto evidente come, in contrasto alla continuità interna e ad un’agenda di politica estera pensata per il lungo termine, il Partito Comunista Cinese debba destreggiarsi in un contesto internazionale oggettivamente instabile e problematico. Riallacciare i legami con i partner economici europei, cambiare passo nella promozione del negoziato in Ucraina, rifuggire gli effetti negativi delle tensioni coreane e aggirare la morsa delle restrizioni commerciali e scientifiche statunitensi: sono questi, forse, i temi internazionali più urgenti per la Cina, disfunzionali nella realizzazione di un progetto di crescita ma da affrontare necessariamente nell’ottica proattiva della politica del 奋发有为(fenfayouwei, “sforzarsi per il successo”), presentata dallo stesso Xi Jinping nel 2013 e vagamente riconfermata nel corso dell’ultimo Congresso.