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Le dimensioni cinesi dell’intesa tra Iran e Arabia Saudita. Intervista a Jacopo Scita

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La Repubblica Popolare Cinese ha recentemente mediato con successo la conclusione del dialogo tra l’Arabia Saudita e l’Iran, potenze rivali nel Golfo Persico. Geopolitica.info ha incontrato Jacopo Scita, policy fellow alla Bourse & Bazaar Foundation di Londra, per meglio comprendere gli interessi e le prospettive cinesi che hanno portato Pechino a intestarsi il ruolo di potenza mediatrice.

L’intesa raggiunta il 10 marzo scorso tra Iran e Arabia Saudita a Pechino, e mediata dalla Cina, ha sorpreso il mondo intero. Questo anche perché in passato la potenza asiatica si era dimostrata refrattaria al coinvolgimento diplomatico nelle crisi di sicurezza mediorientali, preferendo mantenere posizioni più distanti. Attraverso quali lenti va letta quindi questa svolta per la politica estera della RPC?

Ritengo l’accordo vada analizzato con cautela, partendo da due dimensioni interpretative; la prima prettamente regionale, la seconda globale. La Cina ha un interesse verso il mantenimento della stabilità nell’area del Golfo Perisco, in quanto è dipendente dal petrolio mediorientale per più del 50%. Inoltre, gli interessi economici di Pechino nella regione si sono largamente espansi nel corso degli anni; basti pensare ai più di 6000 business cinesi negli Emirati Arabi Uniti, Paese in cui risiedono circa 300 cittadini cinesi. L’aumento della presenza di Pechino nella regione ha quindi come conseguenza logica un interesse verso la sua stabilità.

La seconda dimensione, quella globale, è legata all’opportunità emersa con la richiesta saudita alla Cina di fungere da mediatrice nell’ultimo passaggio del dialogo tra Riad e Teheran. Ci troviamo di fronte quindi all’intersezione di due congiunture: due attori che già dialogavano all’interno di un framework prettamente regionale, a cui ha fatto seguito l’ingresso della Cina, mossa dall’ambizione di accreditarsi come attore diplomatico nel Global South, e verso quei Paesi meno coinvolti nel conflitto tra Russia e Ucraina. Al riguardo è bene ricordare le parole di Wang Yi, capo della diplomazia cinese, il quale nell’annunciare l’accordo lo ha caratterizzato come la prima concretizzazione della Global Security Initiative cinese, la nuova visione di politica estera del terzo mandato di Xi Jinping. Wang Yi ha inoltre sottolineato come l’intesa dimostri che vi sono altre crisi al di fuori della guerra in Ucraina di cui le grandi potenze si devono occupare. L’opportunità quindi si è trovata all’intersezione di due dimensioni, quella regionale e quella globale.

Intestarsi l’eventuale risoluzione delle tensioni tra Arabia Saudita e Iran è per Pechino una grande opportunità, ma al tempo stesso un rischio notevole nel caso in futuro l’accordo non vada in porto. Se una delle parti verrà meno all’intesa siglata, la Cina interverrà in quanto garante dell’accordo?

Questa è la domanda che in tanti si stanno ponendo a cui si sta facendo fatica trovare una risposta, in quanto l’evento è senza precedenti e diviene quindi difficile capire cosa accadrà in futuro. A mio giudizio è improbabile che la Cina abbia accettato di ricoprire il ruolo di garante formale dell’accordo e la responsabilità di dover eventualmente ammonire o sanzionare una delle due parti. Ciò non vuol dire che la Cina, immaginando un’ipotetica rottura degli impegni presi da parte degli iraniani, non possa privatamente fare pressioni private su Teheran. Bisogna quindi distinguere tra un codificato ruolo formale e uno più probabile dal carattere informale.

Inoltre, vi è poi la questione dell’immagine cinese, se essa possa venire danneggiata da un futuro collasso dell’accordo. Qui è interessante valutare la narrazione cinese verso l’area mediorientale, e come la Cina spesso sottolinei come i Paesi della regione siano responsabili del proprio destino. Questo da un lato serve alla Cina per fare appello, anche guardando alla storia, a sentimenti anticoloniali e a contrastare l’influenza statunitense nella regione. Ma al tempo stesso questa narrazione può fungere da exit strategy. In caso di naufragio dell’accordo la Cina potrà sottolineare come l’accaduto non sia una sua responsabilità; la regione non necessità di una influenza e supervisione esterna, in quanto è compito dei singoli Stati farsi carico delle loro responsabilità e delle eventuali conseguenze.

I rapporti tra Pechino e Teheran sono spesso altalenanti: solo nel dicembre scorso l’ambasciatore Chang Hua era stato convocato al Ministero degli Affari Esteri iraniano in quanto accusato di aver messo in discussione l’integrità territoriale dell’Iran. Inoltre, non è raro che commentatori e politici iraniani critichino la poca affidabilità cinese in merito alle intese commerciali siglate in passato tra i due Paesi. Quali risvolti può avere quindi questo accordo per le relazioni sino-iraniane?

A mio avviso l’impatto sarà abbastanza limitato, anche se nell’immediato vi è un risvolto positivo per l’Iran in termini politici e d’immagine.
Emerge infatti come vi sia una intesa politica crescente tra la Cina e l’Iran, e come quest’ultimo possa contare su Pechino come partner internazionale. L’intesa con la Cina è una carta che gli iraniani si stanno giocando per contrastare l’isolamento internazionale del Paese promosso dagli Stati Uniti e alcuni suoi alleati; Teheran mira infatti a uscire da questo isolamento stringendo un accordo con suo il principale rivale regionale avendo il supporto della grande potenza emergente che, secondo la narrativa iraniana, sta mettendo in discussione l’egemonia statunitense.

Il problema però si pone dal punto di vista pratico, in quanto le relazioni sino-iraniane rimangono intrappolate in uno status di eccezionalità. La cooperazione economica, il fulcro degli accordi venticinquennali e la Comprehensive Strategic Partner stretta tra i due Paesi, rimane emergenziale. Il cuore della relazione economica tra i due Paesi rimane l’acquisto cinese, a prezzi pesantemente scontati, del petrolio iraniano, anche grazie allo scarso enforcement delle sanzioni da parte degli US.

Oltre a questo, a causa delle sanzioni secondarie statunitensi, non vi è un ambiente politico, economico e finanziario che permetta alla Cina di investire in Iran come fa in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi Uniti. Nonostante, ad esempio, la firma del 25-year cooperation agreement i livelli di bilateral trade sono molto bassi, come gli investimenti cinesi in Iran; è chiaro quindi come l’accordo, da questo punto di vista, non cambi nulla.

Il punto principale è che tutto questo è nelle mani iraniane, in quanto i cinesi sarebbero interessati a investire in Iran ma non a queste condizioni. L’Iran ha un rapporto “schizofrenico” con la Cina; da un lato vi è il desiderio di inglobare Pechino in questa visione anti-egemonica e di battaglia agli Stati Uniti, dall’altro per poter godere realmente dei frutti di questa partnership con la Cina l’Iran dovrebbe scendere a patti sul dossier nucleare e ottenere proprio da Washington la rimozione delle sanzioni internazionali.

L’Arabia Saudita ha recentemente annunciato il suo ingresso come Dialogue Partner nella Shanghai Cooperation Organization, in cui tra l’altro dal mese prossimo diverrà membro effettivo anche l’Iran. Cosa significa in questo particolare momento storico l’avvicinamento di Riad ad un’organizzazione eurasiatica?

È molto significativo, ma su un piano prettamente politico ed è bene quindi sottolineare come l’Arabia Saudita entri nella SCO al livello più basso della scala gerarchica dell’organizzazione.
Inoltre la SCO è un organismo che fa molto rumore ma con importanti limiti nei processi di decision-making e di coerenza interna; l’organizzazione, infatti, non mette solo insieme Cina e Russia, ma ad esempio Cina e India, e Pakistan e India. Rimane quindi un’organizzazione largamente simbolica, ed è conseguentemente simbolico farne parte.

Riad potrà guadagnare un po’ dal punto di vista economico in quanto migliora il suo accesso ai mercati dell’Asia Centrale, ma è l’aspetto politico quello che rimane più importante.
L’Arabia Saudita, assieme a tanti altri Paesi interessati all’ingresso nella SCO, come il Qatar, gli EAU o la Turchia, sta scommettendo su questa organizzazione sulla base di una considerazione, ovvero che il sistema internazionale stia divenendo multipolare. Di conseguenza, da un lato Riad continua a far affidamento sulle storiche relazioni con gli Stati Uniti, ma dall’altro coltiva una relazione più stretta con la Cina, e altre medie-potenze asiatiche.

Nel breve periodo quindi l’entrata della Arabia Saudita nella SCO va visto come un desiderio di rispondere all’ingresso dell’Iran nell’organizzazione, sia come un simbolo di questa interpretazione multipolare del mondo. Nel lungo periodo vi è un interesse a divenire un partner della Cina, in quanto questi Paesi sono sempre più convinti che la visione cinese sia rilevante e destinata ad avere un peso crescente a livello globale, ed è quindi prioritario non rimanerne esclusi.

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