Il recente accordo tra Cina e Vaticano ha destato forte interesse tra l’opinione pubblica e gli esperti. Il suo significato, tuttavia, può essere compreso appieno solo se si riesce a concepirlo come il punto di arrivo di una contesa che ha tutto il sapore di una lotta per le investiture contemporanea.
IL PROGETTO DI UNA CHIESA NAZIONALE
L’incrinatura dei rapporti tra Cina e Vaticano è di poco successiva alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC). Infatti, dopo un breve periodo di cauta politica religiosa, il Partito Comunista Cinese (PCC) inizia a sfidare il primato del Papa nella comunità cattolica cinese, sposando la convinzione di Mao secondo cui «la sovranità nazionale si estende fino al regno dei cieli» (Giunipero, 2007).
Dal 1950 al 1976, il PCC prova a creare, con risultati discutibili e marcate violenze, una Chiesa cattolica nazionale. Il primo passo in questa direzione è rappresentato dal “Movimento di riforma delle tre autonomie” del maggio 1950, teso a imporre l’indipendenza gestionale ed economica alla comunità cattolica cinese (ma non solo) e costato l’espulsione dell’internunzio apostolico (5 settembre 1951) oltre che di migliaia di missionari.
Non avendo ottenuto risultati sufficienti, nel 1953 viene lanciato il “Movimento per la patria e per la religione”, sotto l’egida del quale si giunge a una completa cacciata dei missionari e alla creazione dell’Associazione patriottica cattolica cinese (APCC, luglio-agosto 1957); tratto peculiare dell’Associazione è la promozione di nomine episcopali “dal basso” ovvero decise da riunioni del clero diocesano, mancanti di legittimità pontificia e manipolabili. In ogni caso, neanche l’APCC avrà vita semplice, visto che la Rivoluzione culturale (1966-76), sostenendo istanze fortemente anti-religiose, porterà a una sua quasi totale scomparsa.
La posizione della Santa Sede, nel medesimo periodo, oscilla tra reazione e conciliazione. Dal 1952 al 1958, Pio XII, attraverso una serie di documenti ufficiali, avversa l’etichetta di “nemica del popolo” che i comunisti cinesi cercano di attribuire alla Chiesa cattolica e condanna la nascita dell’APCC, pur senza disconoscerne del tutto le nomine episcopali. Sulla stessa linea d’intransigenza sembra attestarsi anche Giovanni XXIII, che, in un primo momento, denuncia esplicitamente la Chiesa nazionale cinese come prossima allo scisma (15 dicembre 1958).
Dopo un periodo di riflessione, però, lo stesso pontefice pensa di rasserenare i rapporti tra RPC e Vaticano, congetturando la possibilità, poi frustrata da certi vincoli, di coinvolgere i vescovi illegittimi dell’APCC nel Concilio ecumenico del 1962. Anche Paolo VI, con la sua idea di una Chiesa capace di dialogare con tutti gli uomini di buona volontà, prova ad adoperarsi per la distensione ed è a lui che vanno attribuite due notevoli iniziative: la richiesta, più o meno indiretta, di ingresso della RPC nell’ONU (4 ottobre 1964) e l’unica visita di un pontefice alla Cina continentale, sebbene attraverso una breve permanenza nella colonia britannica di Hong Kong (4 dicembre 1970).
LA NASCITA DI UNA CHIESA CLANDESTINA
Negli anni Ottanta e Novanta i rapporti tra Santa Sede e RPC faticano a superare certe tensioni di fondo. Nonostante la scomparsa degli eccessi repressivi della Rivoluzione culturale, l’autorità sulla comunità cattolica cinese continua a informare un’aspra contesa.
Il processo di riforma e apertura voluto da Deng Xiaoping, da un lato, permette la ripresa del cattolicesimo cinese, dall’altro, ribadisce la doverosa aderenza dei credenti a ideali e obiettivi del PCC. La riapertura di molte chiese e curie vescovili, dunque, viene bilanciata da una messe di disposizioni e dichiarazioni che stabiliscono la rinascita dell’APCC. In questo senso, a titolo di esempio, si segnalano: il Documento 19, con cui il Comitato centrale del PCC riconosce, in via ufficiale ed esclusiva, l’operato delle organizzazioni religiose patriottiche in Cina (31 marzo 1982); l’art. 36 della nuova Costituzione, che proibisce l’influenza straniera sugli affari religiosi interni (4 dicembre 1982); e un discorso di Jiang Zemin, risalente al 20 gennaio 2000, in cui autogestione e indipendenza della Chiesa cattolica cinese vengono chiaramente assunte come assiomatiche.
La Santa Sede, contestualmente a quanto appena descritto, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, opta per una linea d’azione incauta. Il 12 dicembre 1981, infatti, essa permette all’episcopato cinese fedele al Papa di nominare vescovi, senza aspettare l’autorizzazione pontificia. Tuttavia tale pratica d’emergenza, applicata anche in altri Paesi comunisti, in Cina, finisce per creare un’organizzazione ecclesiastica parallela e sotterranea rispetto all’APCC.
In breve, è nei Primi anni Ottanta che emerge, per davvero, la scissione tra cattolici “clandestini” e “ufficiali”, una scissione che peggiora nel 1988 con la decisione della Chiesa di Roma di disconoscere i preti ordinati da vescovi patriottici. Durante il decennio successivo, malgrado alcune modifiche marginali, la Santa Sede mantiene la sua posizione, anche a scapito dei clandestini che vengono trattati come controrivoluzionari dal governo cinese, per il già citato Documento 19.
IL PROGRESSIVO RIAVVICINAMENTO
Nel 2000 la canonizzazione di alcuni martiri cinesi invisi al PCC, celebrata per giunta il 1° ottobre (giorno della fondazione della RPC), sembra minare ulteriormente le relazioni sino-vaticane. Cionondimeno il successivo pragmatismo mostrato dalla della Santa Sede facilita la potenziale soluzione di una disputa ormai più che sessantennale.
Nel nuovo millennio la leadership cinese non rinuncia, di fatto, alla sua posizione di principio. Al cattolicesimo, così come a tutte le altre religioni ufficialmente riconosciute dalla RPC, continua ad essere chiesto di adeguare i propri precetti a quelli del pensiero socialista cinese, anzi attorno al 2015 viene anche coniato il concetto di “sinizzazione delle religioni”, per rimarcare l’atteggiamento ufficiale di Pechino.
Novità sostanziali circa la “questione cinese”, invece, vengono introdotte dalla Santa Sede. In linea di massima, si può dire che gli ultimi tre pontefici abbiano rimodulato il rapporto con la RPC, sbarazzandosi di certe rigidità inattuali. Nello specifico, a Giovanni Paolo II va ascritto il merito di aver creato i presupposti per un nuovo dialogo con la RPC, grazie alla richiesta di perdono per gli errori commessi dai cattolici in Cina (24 ottobre 2001); a Benedetto XVI quello di aver iniziato a ricomporre la frattura tra clandestini e ufficiali, con la dismissione delle nomine episcopali d’emergenza (27 maggio 2007); a Francesco quello di aver garantito un riavvicinamento decisivo tra Cina e Vaticano, siglando un accordo provvisorio con il governo di Pechino circa il sistema delle nomine dei vescovi cinesi (22 settembre 2018).
Il summenzionato accordo provvisorio rappresenta, dunque, il più recente sviluppo nelle relazioni tra RPC e Vaticano. Esso, seppur carico di significato storico, non può essere valutato adeguatamente poiché non se ne conoscono i dettagli. Ci sono solo due certezze: la sua natura eminentemente pastorale, data la mancanza di disposizioni tese all’instaurazione di relazioni diplomatiche tra RPC e Santa Sede; e, soprattutto, il riconoscimento di un certo ruolo del governo di Pechino nel processo di nomina dei vescovi cinesi. Quest’ultimo punto solleva almeno due interrogativi: 1) la politica di sinizzazione del cattolicesimo cinese cesserà dopo questo compromesso o continueranno a esistere tensioni tra Santa sede e Cina comunista su questo tema? 2) Il Vaticano, con questa palese deroga al principio di separazione tra Stato e Chiesa, potrebbe aver creato un precedente che qualche altro Stato desidererà sfruttare in futuro?