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Digital Economic Partnership Agreement: l’accesso della Cina e le sue implicazioni

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Il 1° novembre 2021, la Cina ha annunciato di aver fatto domanda per accedere al Digital Economic Partnership Agreement (DEPA), che coinvolge Nuova Zelanda, Cile e Singapore. Anche il Canada sta valutando l’accesso. Quello tra Cina e Nuova Zelanda, e ancor più tra Cina e Canada, è uno strano accoppiamento in materia digitale. Un elemento che scopre scenari complessi nel Pacifico.

Per completezza, questo accordo arriva contemporaneamente all’annuncio della nascita della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un’area di libero scambio che coinvolge sei paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (ASEAN), ovvero Brunei, Cambogia, Laos, Singapore, Thailandia e Vietnam, assieme a Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Australia. 

Da una parte, questo tipo di trattati di libero scambio non deve sorprendere. Anche in fasi politicamente critiche è consueto che paesi economicamente importanti ricerchino forme di accordi che favoriscano le proprie aziende domestiche. Allo stesso tempo, il coinvolgimento di Cina, assieme ad Australia, Nuova Zelanda e potenzialmente Canada in accordi che coinvolgono l’economia digitale è sicuramente un avvicinamento inconsueto nell’attuale contesto geopolitico.

RCEP e DEPA: dove si collocano?

Non è sicuramente necessario ripercorrere qui l’avvento della guerra commerciale tra USA e Cina e il ruolo del Canada in questo contesto, con l’arresto di Meng Wanzhou, CFO di Huawei, e le ritorsioni cinesi contro individui canadesi in Cina.

Tuttavia, questo non è l’unico elemento di tensione lungo l’asse del Pacifico. L’Australia è infatti membro dell’alleanza AUKUS, comprendente Stati Uniti e Regno Unito, che viene letta in funzione anticinese e che ha fatto infuriare l’Unione Europea.

Inoltre, accuse di spionaggio a favore di Pechino in Nuova Zelanda hanno visto coinvolti anche parlamentari di origine cinese, su tutti Yang Jian del Partito Nazionale e Raymond Huo del Partito Laburista. Indipendentemente dal merito delle investigazioni per spionaggio che non può essere analizzato qui per ragioni di spazio, resta evidente il clima di sospetto che vige tra le autorità neozelandesi nei confronti della Cina.

Del resto, fin dal 2017 la professoressa Anne-Marie Brady è salita alla ribalta in Nuova Zelanda e anche all’estero per il suo lavoro di ricerca che accusa le autorità cinesi di influenzare la politica interna di altri paesi tramite la diaspora. Quando il suo ufficio e la sua casa sono stati rapinati e vandalizzati, la professoressa Brady ha sollevato sospetti politici dietro l’atto. Questo elemento si aggiunge ai precedenti nel disegnare un quadro di tensione tra Nuova Zelanda e Cina.

Più conosciuta è la situazione di rivalità tra Cina e Giappone, due potenze regionali di forte caratura nell’industria tecnologica. Anche se attori giapponesi come NTT Docomo hanno perso terreno nella capacità di influenzare gli standard globali di connettività mobile, quali il 5G, restano attori importanti. Inoltre, il Giappone è uno dei principali alleati dell’Occidente in Asia, pur avendo un profilo militare basso nella storia recente.

Un’interdipendenza complessa

Lo scenario che si delinea è uno in cui paesi in forte competizione fra loro tendono ad avvicinarsi per interesse economico. Questo non è una novità. Tuttavia, la volontà di paesi come Canada, Australia e Nuova Zelanda di entrare in accordi economici comprendenti la Cina (e viceversa) segnala la necessità di questi paesi di mantenere canali economici aperti per la propria industria domestica e per i relativi indotti economici, indipendentemente dalla portata della competizione geopolitica e dalle eventuali minacce alla sicurezza.


Riccardo Nanni,
Università di Bologna – Geopolitica.info

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