Fin dall’inizio della guerra d’Ucraina, molti analisti occidentali, annunciando la fine dell’epoca del carro armato, avevano di fatto messo in dubbio l’importanza stessa delle armi di linea (fanteria e cavalleria) sui campi di battaglia e, più in generale, nella strategia di guerra contemporanea.
La funzione di arma strategica ed anche risolutiva sotto il profilo tattico spetterebbe, secondo questa teoria, all’artiglieria, intesa sia nella sua vecchia conformazione pesante da campagna, sia con le sue nuove dotazioni di missili e droni.
Eppure, tanto la fallita offensiva russa contro Kiev nelle prime settimane di guerra, quanto la vittoriosa manovra ucraina su Lyman, hanno messo in evidenza che il fulcro sia della manovra che della battaglia resta indissolubilmente ancorato alle armi di linea, specie se utilizzate in formula mista di fanteria meccanizzata e corazzati. Esse, se logisticamente ben alimentate, sono le unità che consentono sotto il profilo offensivo una rapidità di manovra ed ingaggio che l’artiglieria fisiologicamente non ha e lo stesso dicasi durante la difesa, quanto solo tramite le armi di linea si può strutturare una strategia difensiva flessibile ed in grado di trasformarsi, all’occorrenza, in controffensiva.
L’allungamento del fronte ha penalizzato a suo tempo le “colonne celeri” corazzate russe dirette su Kiev, impossibilitate a ricevere rifornimenti nei tempi previsti dalla tabella di marcia stilata dal proprio Stato Maggiore; cosa invece non accaduta agli Ucraini che hanno spezzato prima l’accerchiamento russo su Kharkiv e poi hanno proseguito in direzione di Lyman, spezzando la linea di quella che rimaneva una pericolosa testa di ponte russa protesa verso l’Ucraina centro-settentrionale. La questione centrale della quale discutere resta la prontezza del sistema logistico degli eserciti impegnati in una guerra convenzionale tra Stati. La logistica è, infatti, in questi casi, non solo branca di supporto della massa armata ma parte integrante di essa tanto nella manovra quanto nella battaglia. Il fallimento di attacchi condotti da unità miste di fanteria e corazzati, al netto delle questioni prettamente militari, è da ascriversi in questa guerra all’insufficienza logistica mostrata specialmente dall’esercito russo più che da un superamento strictu sensu della capacità offensiva e, da ultimo, della funzione stessa del carro armato e, a cascata, persino della fanteria.
Le armi di linea restano la reale “forza cinetica” sia nell’offensiva che nella difensiva degli eserciti ove l’artiglieria, complementarmente e di rimando, ne costituisce il fattore stabilizzatore (in fase difensiva) e di preparazione (in fase offensiva).
Questa è una lezione di cui fare tesoro anche per l’Italia, in particolare alla luce di una non più rimandabile riforma e nuova strutturazione della componente terrestre delle Forze Armate nazionali.
Le riforme e gli investimenti degli ultimi anni hanno pesantemente condizionato, in negativo, l’Esercito che, nonostante le naturali trasformazioni della guerra – intesa non solo quale conflitto ma anche quale momento della politica ed anche sotto la prospettiva “sociologica” – resta la componente essenziale di una forza armata strutturata, l’unica in grado di “vincere in concreto” una guerra dove le forze navali ed aeree possono fungere solo da sostegno. In una concezione clausewitziana della guerra, l’Esercito resta ancora oggi l’unico strumento atto al raggiungimento dello scopo politico del conflitto.
Ammodernare le forze pesanti dell’Esercito Italiano e ripensarne la dottrina d’impiego non è un’idea peregrina, specie negli attuali scenari di crisi ed ipotizzando quelli futuri. Se i conflitti in Siria e Libia, per non parlare della guerra azero-armena nel Nagorno Karabakh del 2020 e della guerra russo-ucraina in corso, confermano il sostanziale trend tattico della iper-tecnologizzazione delle forze in campo, i “mezzi tradizionali” restano parte integrante ed essenziale dei conflitti. L’ampio utilizzo di carri armati in Siria, anche a fronte della presenza di sistemi anticarro d’ultima generazione, ha finora dato ottime prove. Contemporaneamente si deve notare che l’utilizzo di droni Harop ed Harpy (i famosi “droni suicida” turchi ed israeliani) da parte degli azeri in Nagorno Karabakh ha costituito sì una innovazione tattica per la guerra convenzionale tra eserciti regolari, ma il loro impiego è rimasto circoscritto ai meccanismi di difesa statici per la successiva penetrazione di mezzi corazzati e fanteria nei varchi aperti. Così come in Ucraina i droni sono stati utilizzati principalmente in funzione difensiva dalle truppe di Kiev contro le colonne corazzate russe o per resistere agli attacchi in massa delle forze nemiche nei primi mesi del conflitto.
Dunque, anche la “guerra dei droni” non è, allo stato attuale, in grado di sostituire l’azione bellica convenzionale, né può diminuire l’importanza del carro armato tradizionale sul campo di battaglia sia a livello tattico-risolutivo che strategico.
Un ritorno degli scontri ad alta intensità, delle guerre tra Stati, non è da escludere come ha anche confermato il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Francesi, il generale François Lecointre, fin dal 2019, spingendo anche l’Armèe de Terre a riscrivere il proprio Documento Strategico in tal senso.
In scontri ad alta intensità – checché ne dicano i sostenitori della “guerra da remoto” e della “guerra digitale” – le fanterie ed i mezzi corazzati hanno ancora un ruolo, anzi, è proprio nella guerra convenzionale che lo riacquistano.
L’instabilità mediterranea potrebbe costringere Roma già nel prossimo futuro a rapportarsi con conflitti convenzionali. Come nel 2020 aveva giustamente sottolineato Tiziano Ciocchetti, “negli ultimi anni abbiamo avuto una proliferazione di reparti speciali/per operazioni speciali (superiore alla Francia e al Regno Unito). […] Le forze speciali hanno un impiego ottimale a livello strategico, mentre spesso sono state usate come moltiplicatore di forza, quindi non prettamente per quei compiti per cui sono addestrate ed equipaggiate”. Essere un “moltiplicatore di forza” nello scontro tattico è compito dei reparti corazzati come il loro impiego in Siria e Libia dimostra.
Non è detto che l’Italia debba obbligatoriamente essere coinvolta in conflitti convenzionali, ma la “dottrina Lecointre” è plausibile ed un noto detto popolare dice “meglio prevenire che curare”. Le operazioni di peacekeeping si connotano naturalmente – quando le forze di pace vengono coinvolte in scontri – come una fattispecie di conflitto asimmetrico e dunque gli equipaggiamenti ed i mezzi a disposizione rispondono a necessità diverse rispetto a quelle di un combattimento ad alta intensità contro truppe regolari. Le “missioni di pace” sembrano essere l’unica esigenza strategica dell’Esercito Italiano che è stato riformato per rispondere praticamente in toto ai dettami di questi interventi, tralasciando inevitabilmente lo sviluppo ed il potenziamento delle componenti prettamente combat della Forza Armata. Le forze corazzate pesanti rispondono, al contrario, ad un indirizzo politico e ad una trasposizione strategico-tattica convenzionale e quindi votata all’alta intensità. Il ritorno del conflitto “reale” sullo scenario internazionale e le crisi continue nel Mediterraneo e nel Levante (dunque nell’estero vicino dell’Italia) obbligano Roma a prendere una decisione, sull’onda di quanto fatto dai francesi, favorevole al rafforzamento delle “componenti convenzionali” dell’Esercito Italiano.