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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaLa possibile risoluzione del caos libico: le macroregioni

La possibile risoluzione del caos libico: le macroregioni

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La Libia è il quarto paese dell’Africa per estensione di superficie, il diciassettesimo al mondo. Sotto il pugno di ferro del Colonnello Gheddafi poteva vantare una popolazione di 6.120.585 abitanti (2008) e un PIL di 81 miliardi di dollari. Tutto questo prima dell’instaurarsi di una sanguinosa guerra civile che ha portato il PIL libico a dimezzarsi in breve tempo.

Dopo la morte del Colonnello Gheddafi avvenuta il 20 ottobre 2011 in circostanze mai del tutto chiarite, la spaccatura tra le due regioni dominanti si è rimarcata e, complice il coinvolgimento di solamente il 18% dei libici durante le elezioni del 26 giugno 2014, il governo risultante dalle elezioni fu osteggiato da gran parte della popolazione della Tripolitania in quanto palesemente di matrice liberale e federalista. Per questo motivo il nuovo apparato amministrativo, che godeva e gode tutt’oggi del riconoscimento internazionale da parte dell’ONU, si trasferì a Tobruk sotto la protezione del Generale Haftar, ufficiale di alto rango dell’allora esercito di Gheddafi nonché anima militare della rivolta popolare durante la Primavera Araba libica. In opposizione al governo di Tobruk, si formò a Tripoli un fronte di opposizione di matrice islamica denominato “Alba Libica”, il quale poteva contare sull’appoggio militare delle temibili milizie di Misurata (il cosiddetto “Scudo Libico”).

La situazione di stallo proseguì sino al 6 aprile 2016 quando Fayez al-Sarraj, in accordo con la comunità internazionale, assunse la carica di Primo Ministro del nuovo governo libico di unità nazionale. Alba Libica e i suoi alleati abdicarono in favore del nuovo governo nazionale. Proprio quando pareva di essere arrivati alla svolta epocale qualcosa si inceppò: Haftar rifiutò di abdicare nei confronti dell’esecutivo di al-Sarraj. Il piano della comunità internazionale, racchiuso negli step strategici che dovevano portare passo dopo passo alla fusione delle due entità geopolitiche in un unico soggetto, fallì miseramente. Perché? I motivi sono molti. In primis il fatto che al-Sarraj rifiutasse categoricamente di concedere un posto al generale Haftar nel nuovo governo libico: infatti al generale fu negata la possibilità di diventare ministro della difesa del nuovo esecutivo nazionale. Successivamente non può non colpire il fatto che in Libia circa l’85% della popolazione appartenga a più di 160 tribù sparse per il territorio, ogniuna delle quali con un’identità sociale definita e ben precisa.

Se escludiamo l’ISIS, in Libia vi operano circa 230 milizie differenti armate di tutto punto e pronte a difendere i propri interessi, anche tramite l’insorgenza. Sullo sfondo rileviamo poi una minaccia terroristica specifica: al-Shari’a è un’organizzazione terroristica affiliatasi all’ISIS che controlla i territori compresi nell’area di Sirte e Derna. La visione geopolitica complessiva risultante non può quindi che essere la seguente: attualmente in Libia vi sono due amministrazioni governative entrambe riconosciute dalla comunità internazionale che non intendono fondersi l’una con l’altra per nessun motivo, mentre sullo sfondo compare minacciosa la bandiera dell’ISIS.

Se riflettiamo sull’aspetto sociale della situazione non possiamo non soffermarci sulla reale necessità delle due fazioni in lotta (islamica e liberale) di tutelare la propria incolumità e di proteggere la propria identità. Su questo piano sono intervenute più di una volta le ingerenze esterne delle potenze estere: ad esempio è ben noto il sostegno logistico di cui gode Haftar tramite l’Egitto di al-Sissi o il recente supporto militare chiesto da al-Sarraj alla comunità internazionale. In questo clima cercano di districarsi le grandi Major dell’oro nero: Eni, Mobil, Repsol, BP e Total solo per citarne alcune. La maggior parte delle concessioni petrolifere si localizza in Cirenaica dove ad esempio British Petroleum ha più di 200 miglia di zona off-shore al largo di Bengasi. Seguono a ruota nell’on-shore Repsol (SPA), Shell/Royal Dutch (HOL/UK), Mobil (USA) ed RWE (GER). Viceversa sotto questo aspetto la Tripolitania è invece strategica per due motivi: Eni e Greenstream. Eni è presente massicciamente nell’off-shore del Mar Mediterraneo di fronte a Tripoli. Inoltre è proprio da Tripoli che passa Greenstream, il gasdotto che porta il gas libico da Wafa (entroterra libico) sino in Sicilia.

Se a tutto questo ci aggiungiamo che in Tripolitania l’unica altra Major a vantare consistenti interessi economici è Mobil (USA) si comprende molto chiaramente il motivo che anima la richiesta da parte degli Stati Uniti di un intervento internazionale in Libia geopoliticamente stabilizzante, ma a guida italiana.  Per contro è del tutto evidente che il riacuirsi di un conflitto armato non gioverebbe a nessuno. Paventerebbe la concreta possibilità della perdita delle concessioni petrolifere da parte delle grandi Major (come già successo anni addietro con Gheddafi); favorirebbe tra i due litiganti il terzo incomodo e cioè al-Shari’a (ISIS); porterebbe ad un aggravamento dell’emergenza sociale connessa all’immigrazione incontrollata, fenomeno a cui l’Europa non riuscirebbe più a fare fronte.

Analizzati questi fatti, una possibile soluzione al problema potrebbe essere la divisione della Libia in macroregioni. Tale divisione sarebbe possibile nel caso in cui un referendum popolare sancisca di fatto la nuova struttura federale della Libia, peraltro auspicata da più parti. Analizziamo la proposta sotto i suoi molteplici aspetti. Sostenendo due governi già riconosciuti dall’ONU, la comunità internazionale concederebbe ad entrambe le amministrazioni la possibilità di combattere ed eradicare il fenomeno terroristico dell’ISIS attualmente presente in Libia. La situazione risultante consentirebbe alle Major petrolifere internazionali di conservare concessioni e strutture in un clima politico di stabilità e di garanzie per il futuro. Inoltre i due governi risultanti, previa la stipula di accordi internazionali, sarebbero in grado di mantenere sotto stretto controllo il fenomeno migratorio coinvergente nel Mediterraneo centrale e di garantirne il monitoraggio, con la matematica conseguenza di infliggere un duro colpo alle organizzazioni criminali che attualmente gestiscono il traffico di essseri umani dalla Libia all’Europa. Sotto il profilo economico la stabilità politico-sociale dell’area attirerebbe nuovi investimenti esteri e nuovi imprese si impegnerebbero nella la ricostruzione del paese duramente provato dal conflitto civile. In ultimo si potrebbe valutare la possibilità di finanziamento e di sostegno della nuova macchina amministrativa libica tramite il Fondo Monetario Internazionale.

L’Italia, essendo storicamente presente in tutto lo stato libico con infrastutture, uomini e mezzi avrebbe solo da guadagnare da un’opera stabilizzatrice della nazione che si attuasse in tempi rapidi. Potrebbe infatti ripercorrere il solco tracciato dagli investimenti sul territorio compiuti dalla precedente task force per la ricostruzione del paese. Inoltre il controllo e la vigilanza delle aree nautiche permetterebbe la riattivazione della rotta che collega i porti dell’Adriatico con la Libia, senza considerare poi il fatto che la risultante vigilanza del Mediterraneo centrale contribuirebbe alla regolazione dei flussi migratori, consentendo ai centri di accoglienza del sud Italia di riorganizzarsi per il futuro.

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