Lo scorso 4 luglio, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo di stato de facto del Sudan, ha annunciato il ritiro dei militari dai negoziati con le forze civili, consentendo loro la formazione di un governo politico e annunciando il successivo scioglimento del Sovereign Council, l’organo esecutivo che guida il paese. L’offerta di Burhan è stata da molti letta come una tattica progettata per mettere a tacere le sommosse popolari, scaricare le responsabilità dello stallo politico sui civili, carenti di una visione unitaria del paese, e ripristinare gli aiuti dei paesi donatori.
Il processo di transizione democratica in Sudan, iniziato nel 2019 con la caduta di Omar Al Bashir, è stato bruscamente interrotto dal colpo di stato dell’ottobre 2021, che ha portato l’esercito a riprendere in mano le redini del governo, destituendo il primo ministro e la maggior parte dei ministri civili. Il colpo di stato ha di fatto chiuso la strada alle elezioni del 2023, catalizzando la crisi economica e sociale che il paese vive ormai da diversi anni.
L’annuncio del 4 luglio è arrivato nel mezzo di una nuova ondata di proteste. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade della capitale per denunciare gli abusi compiuti dai militari e per manifestare le frustrazioni dovute ad una situazione economica sempre più pesante. In tale occasione, le forze di sicurezza hanno reagito sparando sulla folla, uccidendo dieci manifestanti e ferendone qualche centinaio. In risposta, i partiti politici hanno organizzato una serie di sit-in nella capitale e nelle aree circostanti come parte di una campagna di disobbedienza civile.
In tale contesto, i generali sudanesi si trovano nella necessità di reintrodurre un governo civile in grado di ristabilire la fiducia presso i donatori internazionali, ripristinare gli aiuti finanziari e i negoziati sul debito nonché, come molti sospettano, per scaricare sul governo stesso le responsabilità politiche della situazione disastrosa del paese. Ma a fronte di tale esigenza, i militari non sono veramente disposti a rinunciare al controllo delle redditizie attività statali e a sottoporsi alle responsabilità giudiziarie per i crimini commessi durante l’epoca Bashir.
Come si è arrivati allo stallo politico attuale?
L’attuale stallo politico è principalmente dovuto a tre fattori. Primo: la forte contrapposizione tra l’apparato di governo rappresentato da Burhan e i comitati di resistenza guidati dai giovani che hanno alimentato le proteste di strada degli ultimi anni. Questi ultimi, vedono con totale diffidenza i militari che per decenni hanno allungato i propri tentacoli sulla politica e su ampi settori dell’economia del paese. I comitati hanno pertanto assunto una posizione di assoluta chiusura nei confronti dell’esercito, escludendolo da qualsiasi negoziazione, ed esercitando forte resistenza sui politici di opposizione inclini al compromesso. Ma, nonostante ciò, la loro struttura organizzativa e le forti divergenze al loro interno rendono pressoché impossibile la loro presenza in un futuro governo civile.
Secondo: la forte frammentazione nel campo militare. Con il rovesciamento di Bashir nel 2019, Burhan ha ereditato un complesso apparato di sicurezza militare che include l’esercito ufficiale, le varie unità di sicurezza e intelligence statali, le Rapid Support Forces (RSF) guidate dal vice presidente del Consiglio Supremo, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti” (uno degli uomini forti del paese) e i gruppi ribelli attivi nei diversi stati (Darfur, Blue Nile, Khodorfan). L’attuale supremazia dei militari si fonda sulle capacità federatrici di Burhan di tenere assieme questo ampio ventaglio di attori sotto un’unica bandiera. Tale capacità è però messa in discussione dalle attuali contingenze, che vedono nelle (eventuali) concessioni ai manifestanti una delle cause di sgretolamento della ‘federazione militare’.
Terzo: la forte frammentazione dell’opposizione civile. Le divergenze di interessi nell’opposizione civile (partiti politici, sindacati, associazioni professionali e comitati di quartiere) ne limitano fortemente l’efficacia, non riuscendo poi a tradurre le diverse istanze in proposte politiche credibili. L’unico aspetto comune che lega le opposizioni è la volontà di estromettere i militari dal potere politico e dal controllo di ampi settori dell’economia. Inoltre, la leadership delle Forces of Freedom and Change (FFC), principale raggruppamento politico delle forze dei civili, desiderosa di tornare al governo, è molto attenta nel cercare compromessi con i militari per non provocare l’ira della strada.
Un compromesso necessario?
Ma l’ipotesi di compromesso tra l’opposizione civile e i militari sembra necessaria. La formazione di un nuovo governo civile, che voglia approfittare dell’apertura di Burhan, dovrà tenere conto dell’ampio ventaglio di attori che ruotano attorno alla figura del presidente del Consiglio Supremo, e che con esso hanno stretto alleanze tattiche. In particolare, i principali gruppi delle opposizioni civili dovranno scendere a patti con i tanti leader ribelli che hanno guadagnato posizioni di potere dopo la firma dell’accordo di pace di Juba del 2020 e che hanno successivamente supportato il colpo di stato militare dell’ottobre 2021. Precedentemente alleati alle opposizioni civili, questi ex-ribelli sono rimasti in posizioni di comando dopo il colpo di stato stringendo alleanze tattiche con il regime militare.
Inoltre, altro elemento fondamentale per il superamento dello stallo politico, nonché fonte di forti divisioni nella leadership civile, è l’inclusione degli elementi islamici, intrinseci alla società sudanese e che hanno guadagnato una preminenza politica e culturale durante l’epoca di Bashir, in un futuro governo. Alcuni di loro sono ancora molto influenti e possiedono ingenti mezzi finanziari per influenzare le dinamiche politiche del paese. Per tale motivo, trovandosi nella necessità di stringere alleanze tattiche con le fazioni islamiste, Burhan ha iniziato a riabilitare alcune figure appartenenti a tale campo dell’ex-regime di Bashir.
Come superare lo stallo
Nei prossimi mesi, le opposizioni saranno chiamate a rispondere di fronte alla popolazione sul futuro del paese. Le due principali sfide che saranno chiamate ad affrontare sono, da una parte, l’opportunità di formare un nuovo governo civile che metta assieme anime diverse e discordanti e, dall’altra, la scelta tra il ritorno allo status quo ante al colpo di stato dell’ottobre 2021, formalizzato nella Dichiarazione Costituzionale, o la costituzione di una nuova roadmap che porti alle elezioni.
Ma le sfide sono portatrici di opportunità. Nonostante la frammentazione delle forze rivoluzionarie sudanesi, queste hanno dimostrato una straordinaria capacità nel canalizzare gli sforzi per impedire alla giunta militare di raggiungere tutti gli obiettivi che si era prefissata. E, malgrado la grande maggioranza dei sudanesi sia spaventata dai militari, l’apertura di Burhan ad un governo civile è segno della pressione montate che le forze di sicurezza ricevono dalla popolazione sudanese, tanto da fare concessioni in campo politico. Quali che siano i reali motivi dietro l’apertura di Burhan (ed Hemedti), la formazione di un governo potrebbe essere un primo passo per superare lo stallo nel quale si è venuto a trovare il paese e rappresentare un’occasione per i civili di far valere le proprie istanze.
Purtroppo (o per fortuna), alle attuali condizioni, la creazione di un governo a guida civile presuppone il coinvolgimento di tutte le parti politiche: principali partiti, sindacati, movimenti di protesta, rappresentanti delle periferie sudanesi (a lungo rimasti ai margini della scena politica), rappresentanti religiosi e della società civile. Il governo sarà inoltre chiamato a gestire i rapporti con la componente militare, a risanare il bilancio statale e a ripristinare la fiducia internazionale. E, data la gravità della situazione, dovrà farlo nel più breve tempo possibile.
Le opinioni espresse nell’articolo non rispecchiano necessariamente quelle dell’Agenzia Italia per la Cooperazione allo Sviluppo.