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Il burden sharing nei rapporti tra Stati Uniti e Alleanza Atlantica

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Panta rei, “tutto scorre”, è il celeberrimo aforisma attribuito al filosofo greco Eraclito; è la rappresentazione dell’inesorabile passaggio del tempo, che modifica e trasforma ogni cosa. Il divenire, secondo tale prospettiva, è un processo costante e inarrestabile, anche se, spesso, impercettibile. In maniera opposta, il cosiddetto “paradosso di Achille e la tartaruga”, formulato da un altro filosofo greco, Zenone di Elea, sostiene che il movimento non esiste: una volta che due corpi si mettono in moto, e uno di questi acquisisce un vantaggio iniziale, il secondo, per quanto forte e prolungata sia la sua accelerazione, non raggiungerà mai il primo, che rimarrà sempre in una posizione avanzata. Per Zenone, il cambiamento è un’illusione: malgrado i nostri sforzi per migliorare e progredire, rimaniamo legati a strutture che non riusciamo a controllare, che ci condannano a rincorrere il miraggio di una trasformazione che, in realtà, è un modo differente di concepire la staticità del mondo.

Che lezioni possiamo trarre dal pensiero dell’antica Grecia per spiegare il corso delle relazioni transatlantiche durante il primo anno dell’amministrazione Biden? Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha cambiato la postura degli Stati Uniti nei confronti della nato, dopo la freddezza e le tensioni che hanno caratterizzato il precedente mandato, e riportato Washington sul binario del multilateralismo (panta rei)? Oppure abbiamo a che fare con una nuova serie di interessi e priorità, un nuovo paradigma della politica estera americana che, retorica a parte, accomuna le presidenze di Biden e Trump (il cambio è una percezione falsata)?

L’obiettivo di questo articolo è quello di delineare, ovviamente in maniera non esaustiva, una relazione di “discontinuità nella continuità” che si è venuta a creare tra gli usa e i loro partner transatlantici attraverso la variabile del burden sharing. La tesi che si propone è doppia: da un lato, evidenziare il ritorno di toni nuovamente conciliatori da parte dell’attuale Presidente nei confronti degli alleati e un sostegno chiaro e netto a quel nucleo di valori condivisi che costituiscono la base dell’ordine liberale internazionale, vale a dire la difesa del multilateralismo, della democrazia e della libertà contro il momento dei nuovi regimi illiberali come Cina e Russia; dall’altro lato, si vuole sottolineare la persistenza di un interesse strutturale americano nel cercare di ridurre – almeno a parole – il proprio peso specifico all’interno dell’Alleanza chiedendo agli alleati di “fare di più”, in particolare di spendere di più. 

Gli USA e il burden sharing

Creata nel 1949, la nato è il primo meccanismo di difesa collettiva a cui gli Stati Uniti scelsero di prendere parte. Erano i tempi della Guerra Fredda e del contenimento dell’urss. Una rivoluzione copernicana nella storia della politica estera statunitense che, a partire dal famoso Farewell Address di George Washington (17 settembre 1796), si era imposta una linea di non-intervento con rispetto agli affari europei.

Eppure, la nato fu una risposta tutt’altro che scontata da parte dei policymakers americani alle esigenze di quel nuovo momento storico. Il punto di svolta, largamente sconosciuto ai più, fu l’approvazione da parte del Senato della cosiddetta “risoluzione Vandenberg” (11 giugno 1948): un breve testo – proposto dall’allora presidente della Commissione Affari Esteri, il repubblicano Vandenberg – in cui si affermava che gli Stati Uniti avrebbero partecipato ad alleanze regionali solo se “basate su un continuo ed efficace auto-aiuto e un mutuo sostegno”. Già all’alba del processo negoziale transatlantico erano sufficientemente chiare le conseguenze di una tale sproporzione di potere fra gli usa e i suoi nuovi alleati: i primi avrebbero dovuto contribuire molto più degli altri al successo della nato. Un fatto che divenne evidente con il fallimento della ced (agosto 1954) e le tensioni provocate dalla crisi di Suez (ottobre-novembre 1956).

Cos’è il burden sharing, e perchè è così importante? In base a un rapporto pubblicato dall’Assemblea Parlamentare della nato, può definirsi come “il peso relativo della distribuzione dei costi e dei rischi tra gli alleati nel perseguimento di obiettivi comuni”. È la somma algebrica, per così dire, del contributo fornito da ciascun Stato membro per il funzionamento dell’alleanza, misurabile sia in termini di risorse immesse nell’organizzazione (input) che di mezzi e capacità attivamente dispiegati nelle sue diverse operazioni (output). Il burden sharing è una variabile cruciale poiché certifica, a livello quantitativo, il grado di investimento economico, dunque politico, sostenuto da ogni alleato per il mantenimento di un sistema efficace ed efficiente di difesa collettiva, uno degli scopi primordiali di qualsiasi rapporto coalizionale. 

Lo studio delle relazioni internazionali ha prodotto un’ampia letteratura circa il funzionamento delle alleanze. Il contributo più importante è il cosiddetto “dilemma di sicurezza delle alleanze”: il sorgere, in modo ciclico e pressoché inevitabile, di due tendenze contrapposte che l’autore definisce “paura dell’abbandono” e “paura dell’intrappolamento”. La prima suole manifestarsi nei membri più deboli dell’alleanza, in genere più dipendenti rispetto alla promessa di difesa collettiva: questa condizione produce in loro una sensazione d’insicurezza, spingendoli a chiedere un impegno maggiore da parte degli alleati più forti. Il secondo tipo di sindrome colpisce invece i membri più potenti, i quali, essendo in genere quelli meno dipendenti dal vincolo di alleanza, sono portati a sviluppare un senso d’imprigionamento che li induce a ridurre, per quanto possibile, il proprio contributo. Secondo Snyder, le forze di questo “dilemma” acquistano maggiore impeto nei sistemi multipolari, tradizionalmente più dinamici di quelli bipolari. 

Se si vuole adottare il “dilemma” di Snyder per spiegare il comportamento degli Stati Uniti nella nato, è chiaro che la logica del burden sharing diventa uno dei principali indicatori di un sentimento di “intrappolamento” percepito in maniera ricorrente dall’establishment americano. Le ultime due amministrazioni repubblicane raggiunsero un livello di scontro pressoché frontale: l’idea rumsfeldiana delle “coalizione dei volenterosi” (settembre 2001) e le minacce di Trump di far uscire gli usa dalla nato o ridurre drasticamente il contingente americano in Germania. Eppure, anche le presidenze democratiche, all’apparenza più simpatetiche verso le posizioni europee, si sono caratterizzate per posizioni critiche. È il caso, ad esempio, di un Obama “frustrato con alleati” riluttanti a guidare operazioni in cui il contributo americano non era giudicato essenziale. È lo stesso Obama che nel summit nato del Galles (settembre 2014) si rallegrava per l’adozione del famoso criterio del “2 per cento” il cui scopo è quello di tornare ad aumentare le spese militari degli alleati. O addirittura Kennedy – quello del Ich bin ein Berliner – che in un memorandum del dicembre 1962 accusava l’Europa di «free-riding”, sostenendo che “a livello politico e di difesa, questa situazione con i nostri alleati della nato doveva essere modificata» .

Il burden sharing e l’amministrazione Biden

Qual’è la posizione dell’amministrazione Biden rispetto al tema della distribuzione dei costi all’interno della nato? Un primo indicatore è tipo quantitativo, ed è nel segno della continuità con Trump. Per il 2021 la stima della spesa americana per il settore della difesa ammonta a 811 miliardi di dollari; ciò significa che gli usa, oltre a rimanere il paese con la spesa militare più alta al mondo, contribuiscono a circa il 69% del bilancio nato, con un incremento del 24% a partire dal 2014. Nel periodo 2014-2021 anche il resto degli alleati ha aumentato la propria spesa militare: Canada (46%), Francia (13%), Germania (40%), Italia (56%), Regno Unito (11%). Nel caso di molti paesi dell’Europa orientale, le cifre sono più che raddoppiate, come, ad esempio, Lituania (199%) o Romania (115%). L’unico paese in contro-tendenza è la Turchia (-4%) (ibid.). In termini assoluti, la previsione per il 2021 è che soltanto dieci paesi membri (un numero comunque in crescita) rispetteranno il criterio del 2%, mentre la grande maggioranza degli alleati – Canada e Germania sono le eccezioni più eclatanti – rispetterà l’altro “criterio gallese”, quello del 20% di spese per investimenti in major equipments

Un secondo indicatore è, invece, di natura qualitativa, ossia le dichiarazioni ufficiali del Presidente. Nel corso del 2021, Biden si è espresso in sei occasioni su questo tema:

  • 4 febbraio: discorso al Dipartimento di Stato, 
  • 9 febbraio: discorso alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, 
  • 3 marzo: pubblicazione della Interim National Security Strategic Guidance
  • 14 giugno: conferenza stampa congiunta con il Segretario Generale della nato, Stoltenberg, 
  • 21 settembre: discorso all’Assemblea Generale dell’onu, 
  • 29 ottobre: vertice bilaterale con il Presidente francese.

Sostegno alla classe media, modernizzazione tecnologica e militare, rivitalizzazione delle alleanze tradizionali, e rilancio dei valori della democrazia e dell’internazionalismo liberale sono le costanti di questi interventi. Nulla che possa far pensare a un’intenzione usa di smarcarsi dagli affari europei – in forte discontinuità, almeno verbale, con Trump.

Eppure, quantità di spesa e analisi del discorso non sembrano essere strumenti sufficienti. Un terzo strumento per valutare il rapporto fra usa e nato attraverso la lente del burden sharing è di natura politica, ossia le priorità della politica estera americana e lo stile della sua leadership. Due misure immateriali, ma di cruciale importanza nella “economia politica” transatlantica. Nel primo caso, risulta evidente che negli anni a venire l’interesse statunitense si concentrerà nello scacchiere indo-pacifico: come affrontare la sfida cinese e rinvigorire la propria politica di alleanze in quella regione. Il recente patto militare aukus – la preferenza per i paesi “Five Eyes” e “quad”, causa dell’umiliazione diplomatica francese – ne è un chiaro esempio. Nel tentativo di ricucire lo strappo con Parigi, Washington ha fatto sapere quale sarebbe il nuovo ruolo che dovrebbero giocare i paesi europei: intensificare la loro presenza nell’area mediterranea, soprattutto nel Sahel. Nel vertice di Roma con Macron, Biden ha detto di riconoscere “l’importanza di una difesa europea più forte e più capace che contribuisca alla sicurezza globale e transatlantica e sia complementare alla nato”. Un messaggio non velato per Parigi di proseguire l’Operazione Barkhane e non ritirarsi, come più volte annunciato. Come risponderà Macron – impegnato in una complicata campagna elettorale?

La recente ritirata dall’Afghanistan offre spunti di riflessione simili a quelli della vicenda aukus, soprattutto in termini di stile di leadership americana, giudicata troppo unilaterale e di scarsa sensibilità per gli interessi e le proposte degli alleati. Questo modus operandi, con cui gli usa “cercano spesso di ottenere tutto: mantenere la leadership dell’alleanza e aumentare la spesa militare alleata”, potrebbe provocare una sorta di effetto boomerang:

Biden, e le prossime amministrazioni americane, non dovrebbero pensare che la leadership usa aumenterà la spesa militare europea o l’unità dell’alleanza. Al contrario, sono di fronte a un tradeoff fra politiche di breve periodo basate sugli interessi usa e politiche più inclini alle preferenze alleate ma destinate ad aumentare i costi e l’impegno degli Stati Uniti. Gli alleati possono continuare a sostenere politiche favorevoli agli usa, al costo però di una crescente insoddisfazione. Dando la priorità alle preferenze degli alleati aiuterebbe a garantire la coesione all’interno dell’alleanza e addirittura aumenterebbe il contributo alleato. 

Riassumendo, si potrebbe dire che, dal punto di vista americano, quindi in modo indipendente dal ciclo elettorale, il burden sharing transatlantico equivale al famoso dilemma descritto nel 1960 dall’economista Robert Triffin circa la sostenibilità del sistema monetario di Bretton Woods: un conflitto d’interessi tra obiettivi individuali di breve periodo e priorità collettive di lungo periodo. Ciò non significa che la nato è destinata a sfaldarsi ed essere sostituita da una serie di alleanze bilaterali o “minilaterali” (i cambi flessibili post-1973); ma che un “Nixon shock” transatlantico – Trump lo minacciò ripetutamente – non è fantascienza, complici la profonda polarizzazione della società americana e le pulsioni anti-globaliste di un ampio settore dell’elettorato repubblicano. La volontà di negoziare un nuovo “patto transatlantico” che produca un compromesso soddisfacente tra la fretta americana di operazionalizzare le sue nuove priorità indo-pacifiche e le resistenze degli europei verso un uso maggiore dello strumento militare nei loro teatri periferici – a partire dalla “Bussola Strategica” europea recentemente pubblicata – sarà la chiave di volta per alleviare le tensioni provocate dal burden sharing nato.

Conclusioni 

Volendo imbastire una iniziale comparazione tra le presidenze Biden e Trump sul tema del burden sharing, si è cercato di sottolineare una certa continuità di policy al netto di una sostanziale differenza di stile diplomatico. La si è definita una “discontinuità nella continuità”. Nel corso del 2021 si è assistito a uno scollamento nella politica estera americana: da un lato, il recupero di una retorica internazionalista e di rassicurazione degli alleati, soprattutto quelli nato (in chiara discontinuità con Trump); dall’altro lato, la prosecuzione di una richiesta esplicita di una maggiore spesa militare da parte degli europei, effetto – oltre ai noti motivi interni – del consolidamento di una nuova configurazione dell’equilibrio del potere a livello mondiale, in cui il quadrante principale non è più quello transatlantico, bensì quello indo-pacifico (in chiara continuità con Trump). 

Non esistono sfere di cristallo; predire il futuro rimane, come sempre, impossibile. Il risultato più auspicabile è dunque uno sforzo politico da parte di entrambe le parti per ridurre la distanza che le separa. Se è certo che l’Europa «deve imparare velocemente a parlare il linguaggio del potere», è anche vero che per molti «è ancora difficile essere un alleato degli usa». Non c’è altra soluzione al compromesso perchè, come dicevano gli antichi romani, in medio stat virtus.

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