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Brexit, battaglia finita tra Regno Unito e Unione europea per l’accordo. Una vittoria per entrambe

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Alla Vigilia di Natale sono arrivati gli annunci ufficiali da parte di Ursula von der Leyen e di Boris Johnson, che hanno posto fine così a un processo iniziato quattro anni e mezzo fa. L’accordo è stato firmato dopo un’estenuante trattativa durata mesi, portata avanti in primo luogo da Michel Barnier e David Frost. La data di scadenza del periodo transitorio era il 31 dicembre e gli abitanti di una e dell’altra parte si stavano preparando alla peggiore delle ipotesi. A pochi giorni dalla rottura è stata scongiurata, quindi, una hard Brexit, che avrebbe recato danni sia al di qua che al di là della Manica, specie in un periodo storico come quello che stiamo vivendo.

La notizia principale è che non ci saranno dazi sul commercio, che quindi continuerà ad essere libero. Le merci viaggeranno come al solito, con l’unica variante data dai controlli alle frontiere, che inevitabilmente rallenteranno i vari passaggi. L’interscambio, dal valore di circa 700 miliardi di euro, è però salvo. I cambiamenti più rilevanti (definiti “sostanziali” dal ministro britannico Michael Gove) ci saranno soprattutto sui viaggi.

Nella notte tra il 23 e il 24 dicembre sono stati limati, invece, gli ostacoli che tenevano distanti Londra e Bruxelles. A partire dalla ormai celebre questione della pesca. Un problema dalla valenza politica molto forte per i britannici, che richiedevano il controllo della sovranità dei propri mari, rispetto al ben più modesto impatto economico. Si è trovata una sintesi tra le due posizioni. Le imbarcazioni europee potranno ancora nei prossimi cinque anni e mezzo usufruire delle acque britanniche, dovendo però tagliare il 25% del valore del pescato. Alla fine di questo periodo saranno rivalutate le concessioni e i diritti per i pescherecci europei. Prima di trovare un punto d’incontro l’Ue voleva una riduzione del 18% mentre dal Regno Unito ambivano a una ben più alta percentuale (60%).

Sciolto anche un altro nodo importante, quello del cosiddetto level playing field. Il Regno Unito può essere soddisfatto perché non dovrà sottostare a normative targate Ue. Avrà però l’obbligo di garantire alcuni standard comuni (a livello sanitario e ambientale soprattutto) per evitare di fare concorrenza sleale nei confronti delle aziende europee. Ovviamente anche l’Unione europea dovrà rispettare gli stessi canoni mentre sui possibili aiuti di Stato alle società britanniche Londra dovrà adeguarsi alle regole comunitarie, avendo la possibilità però di adottare norme nazionali.

Il terzo problema principale riguardava la governance e come stabilire (e giudicare) eventuali infrazioni dell’accordo di una delle due parti. Si attiverà un meccanismo che ipoteticamente potrebbe portare all’introduzione di sanzioni economiche, come per esempio dazi su determinati beni. Le controversie saranno disciplinate da un arbitrato indipendente ed esterno, come richiesto dal Regno Unito, che temeva un ruolo eccessivo della Corte di giustizia europea. Quest’ultima sarà, però, giudice di possibili contese in Irlanda del Nord, che di fatto rimane all’interno del mercato unico europeo.

Nell’accordo non è stato praticamente inserito il settore dei servizi e della finanza, nonostante abbia un peso significativo negli scambi anglo-europei, mentre sono presenti dei riferimenti alla collaborazione nell’ambito della difesa e della sicurezza. Giusto per fare un esempio, è importante la cooperazione generale tra le forze britanniche e l’Europol, che continueranno a potersi scambiare i rispettivi dati. Nei prossimi mesi, comunque, Regno Unito e Unione europea dovranno lavorare per implementare l’agreement e per migliorare le relazioni nei vari rami.

Londra, infine, uscirà dal programma Erasmus, che ha permesso a migliaia di studenti europei di compiere parte degli studi universitari in altri paesi comunitari. Una notizia che ha trovato molto risalto sui media e suscitato disappunto, ma che era quasi inevitabile. Dal punto di vista simbolico il Regno Unito non poteva rimanere in un progetto così intrinsecamente europeo. Non si è fatto attendere l’intervento della Repubblica d’Irlanda che si è detta pronta a sostenere i costi per i giovani nordirlandesi che vorranno usufruire del programma. Un investimento di circa due milioni di euro l’anno che potrebbe rivelarsi un abile strumento di soft power.

All’interno del fascicolo da 1246 pagine si può scorgere una vittoria per entrambe le parti. Le conseguenze di un no deal sarebbero state pesanti, in particolare per il Regno Unito. Londra ha dovuto cedere qualcosa sulla pesca, ma ne è uscita strappando alcuni vantaggi, soprattutto formali ma spendibili sul piano politico da Boris Johnson. Il premier si è infatti intestato il successo, usando toni trionfalistici per definire un accordo accolto con ottimismo sia dai brexiteers che dai Labour, già pronti a votare a favore. BoJo sembra aver soddisfatto il desiderio del popolo britannico di “take back control” su determinate tematiche calde.

Le istituzioni europee hanno invece dato annuncio del buon esito delle negoziazioni in maniera più contenuta. Ursula von der Leyen lo ha definito “equo ed equilibrato” e un “atto di responsabilità comune”. La presidente della Commissione ha poi voluto voltare pagina facendo un appello agli europei di lasciarsi la Brexit alle spalle perché il futuro è “made in Europe”.

Non tutte le reazioni, però, sono state positive. Nicola Sturgeon, leader scozzese dello Scottish National Party (Snp), ha ribadito che la Brexit sta avvenendo “contro la volontà della Scozia” e che è arrivato il momento di diventare un “paese europeo indipendente”. Il 6 maggio 2021 si terranno le elezioni locali nel Regno Unito e Scozia e Galles andranno alle urne. La crescita delle istanze indipendentiste di Edimburgo, alimentate dall’uscita dall’Ue, metterà a dura prova l’unità del Regno. Nel breve termine la sfida scozzese sarà prioritaria per Londra, ancora più della questione nordirlandese.

Michelle O’Neill, leader dello Sinn Fein in Irlanda del Nord, ha infatti affermato che, nonostante la maggioranza della popolazione nella regione abbia votato contro la Brexit, l’accordo sarà ben accolto in tutta l’isola. L’Ulster, come detto in precedenza, rimarrà nell’unione doganale europea. I controlli sulle merci avverranno nel mare d’Irlanda tra le coste inglesi/gallesi e quelle nordirlandesi. Non ci sarà quindi un confine terrestre duro con la Repubblica d’Irlanda e tanto sembra bastare a non fomentare ulteriormente le forze (politiche e non) repubblicane e nazionaliste. Tuttavia, l’ipotesi di un referendum sull’unità dell’isola si avvicina.

Il deal dovrà superare sia il voto del Parlamento inglese, che dovrebbe avvenire il 30 dicembre, sia di quello europeo, che si riunirà invece direttamente nel 2021. Solo nei prossimi mesi si potranno capire i risultati del divorzio consensuale tra Regno Unito e Unione europea, che come ripetuto da tutti i protagonisti, rimarranno partner e “amici”.

Luca Sebastiani,
Geopolitica.info

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