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Brasile: cause e conseguenze del voto del 28 ottobre

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Con il 55,20% Jair Bolsonaro si è aggiudicato la presidenza del Brasile. Questo il verdetto del ballottaggio dello scorso 28 ottobre. Una vittoria dell’estrema destra del paese che ha però le sue origini nei demeriti dello sconfitto partito socialista. Due estremi a confronto che denotano una pericolosa spaccatura del paese e che confermano definitivamente la sterzata neoliberale della regione latinoamericana.

Il sessantatreenne leader del Partido Social Liberal (PSL), Jair Bolsonaro è riuscito ad imporsi sul cinquantacinquenne candidato del Partido dos Trabalhadores (PT), Fernando Haddad, svelando uno scenario sociale nel paese completamente polarizzato dove da un lato si erge la leadership dell’estrema destra contrapposta ad una sconfitta ma indoma sinistra socialista. Scenario per altro che conferma quanto apparso al primo turno elettorale dove Bolsonaro aveva ottenuto poco più del 46% dei voti contro il poco più 29% di Haddad. Nulla può essere incolpato al candidato del PT, nemmeno l’assenza di carisma o di capacità oratoria durante la campagna elettorale.

La colpa semmai va ricercata nell’approccio dell’intero partito che ha ostinatamente portato avanti sin dal 2016, la candidatura di Luiz Inácio Lula da Silva nonostante fosse in corso l’indagine Lava Jato che lo avrebbe di lì a poco accusato e poi arrestato per lavaggio di danaro e corruzione. Certo il processo è ancora in atto, ma l’azzardo di ostinarsi sulla candidatura improbabile di una persona detenuta è sto controproducente. Infatti a fine agosto il Tribunale Superiore Elettorale ha respinto definitivamente la candidatura di Lula obbligando il PT a ripiegare sul candidato alla vicepresidenza Haddad.

Cosa ha comportato ciò? Oltre a rinunciare al consolidato e riconosciuto carisma del leader del partito quale punto imprescindibile per il ripristino della leadership, ha poi perpetrato nella campagna elettorale a porre Lula quale punto fermo alle spalle di Haddad. Una scelta che voleva magari ottenere l’obiettivo di spostare il favore elettorale nei confronti di Lula in toto sul suo sostituto, ma di fatto non ha fatto altro che ridimensionare le potenzialità di Haddad già in svantaggio per esser stato candidato a poco più di un mese dal voto. Non si tratta quindi di un candidato poco carismatico lanciato allo sbaraglio contro più navigati politici, bensì di una strategia di partito completamente sbagliata. Anzi ad Haddad va dato atto di esser riuscito in un’epica ascesa nel favore elettorale passando da un 4% (agosto) ad un 44,80% del ballottaggio dello scorso 28 ottobre.

Ma se di sconfitta oggi si parla occorre ricercare altre motivazioni a comprovare la fine di una leadership che durava dal 2002 e che solo nel 2016 ha subito un arresto con la destituzione di Dilma Rousseff per impeachment. Proprio il 2016 è stato un anno burrascoso per il PT che nei primissimi mesi vede l’uscita dalla compagina di maggioranza del Partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB). Una scissione che rende il governo vulnerabile nell’organo legislativo e al suo stesso interno con la presenza (unica del PMDB) di Michel Temer nella posizione di vicepresidente.

Intanto dal 2014 rimaneva all’ordine del giorno lo scandalo collegato all’azienda a partecipazione pubblica Petrobras. Un’inchiesta giudiziaria che aveva portato dinanzi al banco degli imputati i massimi dirigenti dell’azienda e di derivazione PT con l’accusa di corruzione, ma senza tuttavia andare a coinvolgere le alte sfere politiche del partito stesso. Tuttavia sempre nella prima metà del 2016 si avanza in parlamento l’accusa di falso in bilancio ai danni dell’allora presidente Dilma Rouseff, per gli esercizi 2014 e 2015. Un’accusa per la quale viene avanzata una richiesta di impeachment poi concretizzata con la destituzione della Rousseff dalla carica di presidente (determinante il voto degli ex alleati del PMDB).

Ecco quindi che alla presidenza subentra Temer, unico del PMDB a non aver abbandonato la compagine governativa. Governo, il suo, non immune dagli scandali di corruzione, ma non per questo meno impassibile e determinato a traghettare il paese fino alla fine naturale del mandato presidenziale in essere. Temer che assiste anche alla messa in stato d’accusa del leader massimo del PT ovvero Lula, che come detto viene accusato di riciclaggio di denaro e corruzione nel processo Lava Jato.

Accuse su accuse dunque che vanno a destabilizzare il PT nelle figure più carismatiche della propria struttura e che pone diversi dubbi nell’elettorato sulla buona fede dei propri leader. Si incrina quindi quella fiducia a tratti inossidabile tra elettorato e leader e ciò può valere per spiegare come, rispetto alle elezioni del 2014, l’opposizione al lulismo e al PT sia riuscita a penetrare le regioni storicamente fedeli (parliamo nella fattispecie delle regioni più a nord del paese).

Importante a questo punto però è comprendere anche cosa ha portato il sud, dal 2002 ad oggi, ad abbandonare progressivamente il proprio favore nei confronti del progetto economico, sociale e politico del lulismo socialista. Innanzi tutto i piani assistenzialistici del governo hanno sviluppato nel tempo una nuova classe media che ha manifestato nuove esigenze per le quali le programmazioni politico-economiche del PT non hanno saputo dare una risposta altrettanto rapida. Gli ingenti e continui investimenti da parte del Governo sono stati perpetrati anche durante periodi de recessione dovuta a congiunture esterne al paese (es. crisi petrolifera iniziata nel 2014, ma anche la stagnazione economica dovuta a una nuova classe media assorbita con fatica all’interno del sistema economico attivo del paese) e la deficienza è stata messa in risalto in occasione dei Mondiali di Calcio del 2014, una vetrina internazionale sfruttata con astuzia dall’opposizione del PT. Tuttavia, se nel 2002 anche il sud (motrice economica del paese) era favorevole al lulismo, la progressiva intraprendenza economica della leadership socialista (partecipazione del pubblico nei settori economici strategici tra cui quello energetico) hanno compromesso il connubio tra pubblico e privato riportando le regioni del sud alla più consona e storica dimensione di roccaforti delle correnti politiche neoliberali.

Un mutamento ben visibile con le elezioni del 2014, ma che nel 2018 vede un ulteriore scatto evolutivo: il sud del paese diventa non più il bacino di consensi del centro destra o della destra neoliberale bensì dell’estrema destra. Possiamo trovare le ragioni di questa estremizzazione in una possibile necessità “di cogliere l’opportunità” da un’alleanza con chi stava assorbendo comunque il consenso popolare con l’inizio della campagna elettorale. Spieghiamo: l’elettorato popolare stava comunque dirigendo il proprio consenso verso la parte politica meno intaccata dagli scandali di corruzione. Infatti se il PT aveva palesemente dato segnali di sofferenza in più situazioni, anche il centro e il centro destra chiamati a sostituire il governo destituito si sono dimostrati coinvolti nel vortice dello scandalo. Ne deriva una percezione di sfiducia nei confronti delle classiche formazioni politiche e una ricerca di sicurezza su chi ha espresso maggiormente un senso di giustizia e ripristino della sicurezza sociale nel Paese.

Ecco quindi che l’estrema destra di Bolsonaro occupa quel vuoto generato dalla corruzione degli altri partiti. Bolsonaro che non ha mai per altro nascosto la propria simpatia verso l’esercito (lui stesso è un ex militare) e verso la dittatura del passato. Dichiarazioni pericolose, ma più che altro provocatorie che non hanno inibito l’elettorato dal premiarlo con il voto e nonostante non abbia potuto partecipare al dibattito elettorale per il primo turno elettorale a causa di un attentato che lo ha costretto ad una lunga degenza in ospedale (6 settembre).

Ora il paese si prepara ad una nuova rivoluzione che avrà inizio con il passaggio di consegne da Temer a Bolsonaro il prossimo gennaio. Da quel momento in poi possiamo già attenderci un forte ridimensionamento della presenza dello Stato nella vita economica attiva del paese a partire dalla vendita delle quote statali della Petrobras. L’idea di Bolsonaro infatti è quella di ripianare il debito pubblico brasiliano mediante una drastica riduzione dei ministeri e dei progetti sociali che li hanno generati, un taglio netto alle misure assistenziali e la privatizzazione della gran parte delle aziende a partecipazione pubblica; allo stesso tempo Bolsonaro tenta di attrarre nel paese nuovi e ingenti Investimenti Diretti Esteri oltre a rendere più dinamica l’imprenditoria brasiliana stessa garantendogli maggiore libertà d’azione.

Ecco quindi il motivo per cui la classe medio-alta ha deciso di spostare il proprio asse politico dal centro-destra alla destra estrema: ha semplicemente colto una ghiotta opportunità evitando di rimanerne fuori. Il risultato comunque che ne deriva è una netta e pericolosa spaccatura del paese tra sinistra socialista ed estrema destra con quest’ultima che con ogni probabilità darà filo da torcere ad ogni formazione sindacale e con il PT pronto a scendere in piazza all’emergere della prima occasione utile (si parlerà di Amazzonia come anche di campesinos e indios e movimento sin tierra durante questo governo di Bolsonaro). Lo scontro è certo e con ogni probabilità porterà a momenti di grande tensione sociale.

Dal punto di vista internazionale invece vediamo una pressoché definitiva e deludente archiviazione dell’esperienza socialista latinoamericana di inizio secolo. I propositi e le aspettative sono finite con l’esser deluse o almeno in parte disattese. Dal 2012 in poi progressivamente l’asse ideologico latinoamericano si è riposizionato sul neoliberismo con buona pace delle roccaforti socialiste che ancora resistono ovvero Bolivia, Venezuela, Cuba e Nicaragua. Ma se per la Bolivia occorre aspettare il 2019 ed assistere alle elezioni presidenziali a cui non potrà per legge ricandidarsi Evo Morales, i governi di Nicaragua e Venezuela sembrano in forte difficoltà e privi di una prospettiva di medio-lungo termine mentre Cuba con la crisi venezuelana e il venir meno di un importante investitore come il Brasile, rischi di tornare a soffrire la pressione economico e politica statunitense. Brasilia aveva avviato sull’isola caraibica un importante piano di investimenti per lo sviluppo del porto commerciale di Mariel e con ogni probabilità tutto verrà riscritto se non annullato con la presidenza di Bolsonaro. Lo stesso presidente neoeletto potrebbe spingere verso il baratro anche il governo di Maduro rafforzando la posizione ostile già in essere della gran parte della regione. Argentina, Paraguay, Ecuador, Cile, Perù, Colombia trovano nel Brasile forse quel tassello mancante e imprescindibile per sancire la condanna del governo venezuelano. Brasile protagonista irrinunciabile per lo slittamento regionale verso il neoliberismo dei prossimi anni, un progetto in linea con la vecchia Dottrina Monroe e quello che potrebbe essere il Corollario Trump alla stessa.

Ma si badi, le ragioni di questo fallimento socialista non sono da ricercare solo ed esclusivamente all’esterno e sulla base di ingerenze di politiche ed economiche, ma anche e soprattutto all’interno dove si denota un’incapacità di rispondere ed adattare i progetti politici ed economici alle nuove sfide che si propongono e allo tesso tempo la pericolosa personalizzazione dei progetti politici finendo con la trasfigurazione del progetto socialista in progetto lulista, chavista, kirchnerista a seconda del leader carismatico in cui si imbatte. Si sgretoleranno o verranno completamente rifondati i partenariati in essere come Unasur, Mercosur e Celac e tutto per l’ennesima volta verrà riscritto nella storia del Sud America, ma per fare ciò occorreva attendere le elezioni dello scorso 28 ottobre e l’archiviazione definitiva del lulismo. Da questo momento in poi sarà interessante assistere alla partita politica e ideologica che prenderà vita in seno al BRICS ammesso che Russia e Cina accettino di condivide il tavolo dei dialoghi con Bolsonaro.

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