Il 21 novembre 1995 è stato firmato, nella base militare di Dayton in Ohio, l’Accordo Quadro Generale Per la Pace in Bosnia ed Erzegovina tra i rappresentanti delle fazioni coinvolte nella guerra bosniaca (1992-1995) alla presenza della Serbia, degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Germania. Sotto lo sguardo attento della NATO e dell’Unione Europea, gli accordi sono stati ratificati il 14 dicembre 1995 a Parigi. Da allora, la presenza della NATO e dell’UE ha subito un’evoluzione, tanto da portare la Bosnia ad essere definita come “paese potenziale candidato” ad entrare nell’UE. Sebbene le violenze tra i “tre popoli costituenti” si siano placate, la crescita di partiti nazionalistici interni alla Bosnia impedisce un effettivo superamento della divisione etnica e la piena riconciliazione della popolazione.
L’intervento NATO in Bosnia Erzegovina tra uso della forza e nation-building
La NATO ha condotto la sua prima Crisis Response Operation (CRO) in risposta alla crisi in Bosnia-Erzegovina. La Forza multinazionale, la Implementation Force (IFOR), è stata dispiegata nel dicembre 1995 in attuazione degli accordi di pace stipulati a Dayton per poi essere sostituita, un anno dopo, dalla Stabilisation Force (SFOR) che ha contribuito alla creazione di un Safe and Secure Environment (SASE) per facilitare la transizione democratica del Paese sulla scia della guerra del 1992-1995.
Nel 1995, le Nazioni Unite erano intervenute nel teatro bosniaco attraverso la UNPROFOR, con lo scopo di monitorare il cessate il fuoco, successivo la fine delle ostilità, e fondamentale per promuovere i tavoli negoziali in favore di una pace duratura. Lo scopo principale dell’intervento internazionale era garantire che i tre attori statali coinvolti nelle violenze – la Repubblica di Bosnia Erzegovina, la Repubblica di Croazia e la Repubblica Federale di Jugoslavia – si impegnassero, in accordo con i principi enunciati dalla Carta delle Nazioni Unite, a rispettare la sovranità delle parti in causa rinunciando all’uso della forza, lesivo dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica degli attori coinvolti.Con l’inizio del cessate il fuoco, nell’ottobre 1995, l’impegno profuso dal Palazzo di Vetro è stato progressivamente sostituito da una missione a guida NATO, la IFOR, con lo scopo di implementare gli sforzi per un accordo di pace attraverso la collaborazione tra i diversi attori sul campo, militari e civili, tra cui l’International Criminal Court for the former Yugoslavia (ICTY). Le missioni a guida NATO, autorizzate ex.capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, operavano in teatro non solo secondo le prerogative tipiche del peacekeeping ma prevedevano, per il personale dispiegato, la possibilità di un più ampio uso della forza non solo in relazione alla legittima difesa ma anche alla difesa degli obiettivi del mandato. Per questo motivo, i dispiegamenti, rientranti nella più ampia catalogazione facente riferimento alle Peace Support Operations (PSOs), e configurabili come interventi di enforcement funzionali alla transizione democratica del Paese, offrono interessanti spunti di riflessione a supporto dei sostenitori dell’uso della forza e di mandati “robusti” per il raggiungimento di una positiva risoluzione del conflitto in contesti dettati da forte instabilità e violenza.
Lo sforzo congiunto tra Nazioni Unite e NATO, pur connotato da evidenti criticità, consente di guardare con particolare attenzione ed interesse ad un elemento di straordinaria importanza: il ripristino dello stato di diritto e il ruolo preponderante della giustizia come protagonisti di un processo di transizione a tutti gli effetti pacifico e democratico. Processo reso possibile da una crescente cooperazione tra componente civile e militare incrementata anche attraverso la creazione, nel 1998, nel quadro della missione SFOR a guida NATO, della Multinational Specialized Unit, composta da forze di gendarmeria internazionale la cui duttilità operativa si è resa fondamentale in contesti di gestione dell’ordine pubblico. La MSU è stata, per le competenze dei suoi operatori, dispiegata in Bosnia in occasione delle elezioni del 1998 in seguito all’esigenza, complice la situazione di grave instabilità, da parte dei vertici dell’Alleanza Atlantica di colmare quel gap di sicurezza attraverso l’impiego di un nuovo tipo di forza che coniugasse capacità e addestramento prettamente militare con compiti di pubblica sicurezza. Il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ha avuto un ruolo importante nell’offrire una soluzione che si sarebbe rivelata vincente anche per il futuro delle missioni di pace; schierare un reparto di Carabinieri avrebbe garantito, per la specifica preparazione degli operatori, quelle condizioni di sicurezza necessarie per la stabilizzazione del Paese.
La Bosnia Erzegovina disegnata a Dayton
La firma degli Accordi di Dayton ha decretato la fine alla guerra in Bosnia coniugando il mantenimento dell’integrità territoriale dello stato con le richieste autonomiste della fazione serba. La Bosnia-Erzegovina è stata riorganizzata in una repubblica parlamentare federale, composta, entro i confini esistenti, da due entità semiautonome: la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Il nuovo assetto, basato su principi consociativi, prevede che la frammentazione etnica sia riprodotta nel governo, nella camera alta del Parlamento e nella Corte Costituzionale. Inoltre, il processo decisionale permette numerosi veti, tra cui il veto di “Interesse nazionale vitale” invocabile dai membri della Presidenza tripartita e dal Parlamento. Tuttavia, per superare l’impasse, è stato fondamentale l’Ufficio dell’Alto Rappresentante, espressione della comunità internazionale. Una minima rappresentanza di quest’ultima si ha anche nella Corte Costituzionale. Inoltre, a Dayton è stata stabilita la creazione di una moneta unica, una banca centrale e un mercato unico. Tuttavia, persistono dei vuoti legislativi come per i diritti di proprietà non ancora tutelati a livello centrale.
Come emerge dalla configurazione federale, lo Stato gode di spiccata autonomia, che si traduce in mancanza di unitarietà. Ciò ha avuto ripercussioni anche sulle forze armate, unificate nel 2005. Se lo stato è detentore legittimo del monopolio della violenza organizzata, si intravedono le contraddizioni interne alla Bosnia, ove la divisione delle forze di polizia permane. La sovranità dello stato non è riaffermata dalla Costituzione, percepita come imposta dalle potenze straniere, infatti ciò ha prodotto effetti distorsivi sui tentativi di riforma. Infatti, il tentativo di modificare la Presidenza tripartita in favore di una unitaria per rafforzare la Presidenza e il Parlamento è fallito nel 2006 e nel 2009. Il Presidente serbo Milorad Dodik ha più volte sottolineato come lo Stato rimanesse tale solo perché sostenuto dall’esterno.
Altrettanto complesso è il rapporto dello Stato con l’Unione Europea (UE). La comunità internazionale è un elemento di supporto o ostativo allo sviluppo del Paese? L’accesso all’UE è connesso al soddisfacimento di requisiti, quali l’adozione di una legge sul censo e di una legge statale che impedisca al governo di accettare aiuti distorsivi per il commercio, e l’implementazione di un nuovo meccanismo coordinativo tra i livelli governativi interni e l’UE. Nonostante la Bosnia si sia parzialmente adeguata alla condizionalità europea, la Commissione ha mostrato rimostranze verso la performance del Paese sottolineando come il progresso sia limitato o nullo in quasi tutte le aree di riforma. Nel maggio 2019, la Commissione europea, come in seguito confermato anche dal Consiglio, aveva identificato 14 aree di priorità che necessitavano dell’implementazione di riforme incrementali quali lo stato di diritto, la democrazia e il funzionamento delle istituzioni democratiche, i diritti fondamentali e la pubblica amministrazione. Inoltre, il Paese si sarebbe dovuto impegnare a perfezionare il sistema elettorale e potenziare il settore giudiziario per allineare il suo framework costituzionale agli standard europei. Nel novembre 2019, l’UE ha bloccato il processo di integrazione.
Sarebbe semplicistico ascrivere la lentezza del progresso bosniaco alla cold peace conclusa a Dayton. Aumentare l’autonomia etnica o gli sforzi di mediazione potrebbe non bastare. Si noti, invece, come la qualità della democrazia sia in calo, nonostante la condizionalità europea. Questa ha contribuito ad aggravare il crescente decoupling tra democrazia e liberalismo costituzionale, in quanto ha alimentato il fenomeno della state capture permettendo a network clientelari di infiltrarsi nelle istituzioni statali con il conseguente indebolimento di competizione politica e accountability interna.
La questione della Republika Srpska e i rapporti Bosnia-Serbia
La Republika Srpska (RS), in quanto entità semiautonoma, ha mantenuto un legame privilegiato con la vicina Serbia. In seguito agli Accordi di Dayton le aspirazioni per una maggiore autonomia culturale e politica dal governo centrale sono state raccolte ed elaborate da Dodik, fondatore dell’Alleanza degli Indipendenti Socialdemocratici (SNSD). La nascita di questo partito, in netta contrapposizione con lo storico Partito Democratico Serbo (SDS), ha permesso alla vena indipendentista e filo-serba di divenire maggioritaria presso Banja Luka e le altre città della RS.
Sin dal 1998, la retorica di Dodik ha fomentato l’opposizione etnica della popolazione civile nei confronti della Federazione di Bosnia ed Erzegovina e il timore di ingerenze politiche da parte dell’UE. I temi chiave della sua politica sono l’indipendenza del sistema giudiziario nella RS e le relazioni con la vicina Serbia. È bene sottolineare che, sebbene le singole entità possano agire in autonomia nelle relazioni con gli stati confinanti, non hanno alcun potere decisionale in materia giuridica e quindi, in merito ai tribunali.
Cogliendo il pretesto della carenza di autonomia, l’SNSD ha indetto diversi referenda (2011, 2016 e 2020) per l’indipendenza dal sistema giudiziario bosniaco e dalla Corte Costituzionale bosniaca, la festa nazionale della RS e infine l’indipendenza dell’entità da Sarajevo. In particolare, il referendum del 2011, ripreso successivamente nel 2018 e nel 2020, era nato dal desiderio di appartenenza e ricongiungimento della RS alla Serbia. Tra tutti i referenda, solo quello sulla Festa nazionale del 9 gennaio ha avuto luogo con la vittoria quasi all’unanimità del sì. Tuttavia, il referendum è stato considerato illegale dalla Corte Costituzionale bosniaca, dall’UE e dalla Serbia stessa che ha mantenuto le distanze dall’iniziativa di Dodik.
Per quanto concerne le relazioni bilaterali tra Bosnia e Serbia, negli ultimi anni gli sforzi si sono concentrati maggiormente sulla questione pendente del confine lungo il fiume Drina, le aperture doganali, il riconoscimento del Kosovo, la distensione rispetto alla guerra e al genocidio di Srebrenica. La presenza di Vucic, politico serbo, nel 2015 alle commemorazioni ventennali della strage di Srebrenica è stata ripetutamente criticata dalla popolazione e mal tollerata dai vertici bosngnacchi, tra cui Izetbegovic.
Attualmente, Bosnia e Serbia rimangono gli unici due Paesi balcanici a non riconoscere l’indipendenza del Kosovo. In particolare, la componente serba della Bosnia – vicina alle posizioni dello Stato serbo – ha fortemente osteggiato e votato contro tale riconoscimento. Nel marzo 2018, si è tenuto a Mostar un importante meeting tra Bosnia, Croazia e Serbia teso a risolvere le divergenze territoriali e politiche. Per quanto riguarda la definizione del confine, le posizioni di Vucic e di Izetbegovic sono rimaste lontane e inconcludenti, mentre si sono registrati importanti progressi con l’apertura degli scambi commerciali e la costruzione dell’autostrada Belgrado-Sarajevo, iniziata nell’ottobre 2019. Tali tendenze sono state confermate anche nel meeting tenutosi nel luglio 2019 a Sarajevo nell’ambito del Southeast European Cooperation Process, conclusosi a Sofia, nel novembre 2020, con la stipula dell’accordo sul mercato comune regionale in cui sono incluse anche Bosnia e Serbia.
Conclusioni
Gli accordi conclusi a Dayton hanno permesso di fermare le ostilità nel lungo periodo, sebbene non abbiano risolto le contraddizioni interne del Paese. Nelle parole dell’allora Alto Rappresentante Jeremy Ashdown, gli Accordi hanno rappresentato una soluzione superba per concludere la guerra, ma un pessimo strumento per creare uno stato liberal-democratico. In questo senso si spiega la presenza estensiva della comunità internazionale.
Una cerimonia tenutasi a Sarajevo il 2 dicembre ha segnato la conclusione della SFOR e il lancio della missione a guida UE, EUFOR; nonostante, tuttavia, l’Unione Europea abbia assunto le prerogative tipiche delle operazioni di mantenimento della pace, la NATO manterrà un quartier generale a Sarajevo per assistere il paese nella riforma degli apparati della difesa. È interessante notare come, ad oggi, la Bosnia-Erzegovina, considerate le aspirazioni a diventare parte dell’Alleanza, sostenga attivamente la missione guidata dalla NATO in Afghanistan e collabori con gli alleati e altri paesi partner in molte altre aree. La Bosnia-Erzegovina ha, inoltre, aderito al Partnership for Peace (PfP) nel 2006 ed è stata invitata ad aderire al Membership Action Plan (MAP) nel 2010. Inoltre, lo sforzo internazionale per promuovere partiti politici più moderati non è stato efficace, anzi il loro ruolo è funzionale al consolidamento al potere di attori che resistono al cambiamento e continuano a fare dei Balcani una polveriera.
Un esempio della nascita di partiti nazionalistici è rappresentato dall’SNSD di Milorad Dodik. Il suo partito infatti, è diventato ben presto il partito egemone delle diverse elezioni della Repubblica Serba di Bosnia. Una particolare narrazione storica e politica della guerra e degli Accordi di Dayton ha fatto in modo che questo partito reclamasse la secessione della RS dallo stato centrale in più occasioni, l’ultima delle quali nel febbraio 2020. Tuttavia, le relazioni tra i due paesi balcanici hanno trovato terreno fertile nel campo economico e commerciale, mentre rimangono in sospeso le questioni del Kosovo, la frontiera lungo il fiume Drina e il riconoscimento da parte serba delle stragi di guerra.
Elisa Maria Brusca,
Geopolitica.info
Stefano Lioy,
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Letizia Storchi,
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