L’amministrazione Biden reagisce al primo “stress test” contro l’Iran: l’attacco missilistico condotto al confine tra Siria e Iraq della notte di giovedì 25 febbraio è una risposta al bombardamento su Erbil rivendicato da una milizia vicina a Teheran.
Gli eventi di Erbil
Nella serata di lunedì 15 febbraio, un lancio di almeno 14 razzi Katiusha ha colpito la zona dell’aeroporto di Erbil e la vicina base della forze della Coalizione internazionale a guida Usa. Bilancio di un morto – un contractor Usa di origine filippina – e di sei feriti, tra cui un soldato della Guardia nazionale della Louisiana e quattro appaltatori americani. La rivendicazione è stata di una milizia semi-sconosciuta, Saray Awliya al-Dam (“i guardiani delle brigate del sangue”), nota per piccoli attacchi condotti contro le forze statunitensi nello scorso agosto. Nel comunicato della rivendicazione si legge che “l’occupazione americana non sarà al sicuro dai nostri attacchi in nessun centimetro della patria, e nemmeno in Kurdistan, dove promettiamo che effettueremo altre operazioni di qualità”.
Le reazioni a caldo da parte di Washington sono state dure: il Presidente Biden ha fatto sapere, affidando una nota a Jen Psaki, responsabile della comunicazione della Casa Bianca, che si sarebbe “riservato il diritto di rispondere nel tempo e nei modo che preferiamo” all’attacco. Anche il Segretario di Stato Blinken si è detto “indignato” dall’accaduto, e ha dichiarato, in un comunicato congiunto, con il Ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, tedesco Heiko Maas, italiano Luigi Di Maio e britannico Dominic Raab, che gli “attacchi al personale e alle strutture degli Stati Uniti e della coalizione in Iraq non saranno tollerati”.
La risposta americana
Nella notte del 25 febbraio gli Stati Uniti hanno effettuato diversi attacchi aerei nella Siria orientale, al confine iracheno, contro edifici appartenenti a quelle che, secondo il Pentagono, erano milizie sostenute dall’Iran responsabili dei recenti attacchi contro personale americano e alleato in Iraq.
Come specificato da John F. Kirby, l’addetto stampa del Pentagono, Biden ha autorizzato gli attacchi in risposta ai fatti di Erbil e a causa delle continue minacce al personale americano e della coalizione nel nord nell’area. Nello specifico, sono state sganciate sette bombe da 500 libbre su diverse strutture situate in un checkpoint di confine utilizzato per passaggio di armi e combattenti da alcune milizie sostenute dall’Iran, tra le quali Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al-Shuhada.

Secondo quanto riferiscono i funzionari americani, il Pentagono avrebbe offerto un target più ampio, ma Biden ha approvato un’opzione meno aggressiva e maggiormente specifica. Inoltre, come trapela da fonti ufficiali e rilanciata dai principali media statunitensi, gli strike sono stati condotti appena oltre il confine in Siria per evitare un contraccolpo diplomatico al governo iracheno.
La linea di continuità
Come avvenuto durante l’amministrazione Trump, anche Biden ha deciso di agire in maniera decisa non appena sono stati attaccati e messi in pericolo diretti interessi americani nella regione. La linea rossa per entrambi i Presidenti sembra essere la stessa, ed è stata rilanciata dal Pentagono: “L’operazione invia un messaggio inequivocabile: il presidente Biden agirà per proteggere il personale americano e della coalizione”. Sotto la Presidenza Trump abbiamo assistito a diversi tentativi di destabilizzazione da parte dell’Iran, in special modo con azioni di contrasto e disturbo nel Golfo di Hormuz (si ricordino i vari attacchi alle petroliere), e soprattutto con il bombardamento con cruise e droni di asset fondamentali per l’industria petrolifera della compagnia nazionale saudita Saudi Aramco. Ma nonostante un grosso di rischio di escalation, Washington non reagì su un piano militare.
Al contrario di quanto avvenuto a seguito degli eventi in Iraq alla fine del dicembre del 2019: dopo l’attacco missilistico condotto contro la base aerea irachena K-1 nella provincia di Kirkuk, che comportò l’uccisione di un contractor Usa, ma soprattutto a seguito del prolungato assalto organizzato da milizia filo-iraniane all’Ambasciata americana a Baghdad, gli Stati Uniti eliminarono il 3 gennaio 2020 il principale punto di riferimento della strategia militare asimmetrica iraniana, il Generale Qasem Soleimani. La linea rossa fissata da Trump è stata considerata ampiamente superata dall’Iran non appena gli Stati Uniti hanno visto sotto attacco i propri interessi diretti, i propri uomini e le proprie installazioni militari. Tale tattica, come ci evidenzia l’episodio della scorsa notte, pare essere confermata anche dall’attuale amministrazione Biden.
Lorenzo Zacchi,
Geopolitica.info