Non è facile immaginare cosa passi per la testa di Boris Johnson. Tantomeno in questi primi giorni del 2022. Tuttavia, vista la situazione che sta attraversando lui e il partito conservatore – azzardando – una possibile opzione potrebbe essere: “sarà l’anno della definitiva crisi e uscita di scena oppure quella di una rinascita politica?”
Il dato più emblematico è quello che emerge dagli ultimi sondaggi interni al Regno Unito, che ritraggono non solo le preferenze politiche della popolazione britannica ma anche i giudizi sulla Brexit, a un anno dal suo effettivo compimento. Il quadro per il premier Boris Johnson è preoccupante, al limite del drammatico. A fine novembre i conservatori sono scivolati per la prima volta dietro al partito di Keir Starmer; un sorpasso significativo, quello laburista, anche se di un solo punto. Ma le percentuali dell’ultimo rilevamento, al 30 dicembre 2021, raccontano un divario sempre più ampio: 39% il Labour, 33% i Tories. Altro dato importante è quello del consenso personale di Johnson, che sta subendo pesanti ripercussioni: se un anno fa coloro che approvavano il suo operato erano il 56%, contro il 44% di chi lo disapprovava, a dicembre i primi sono scesi al 31%, mentre i secondi sono saliti al 69%.
Questo crollo è riconducibile a diversi fattori, tutti legati a un filo che porta alla figura di BoJo. A partire dagli scandali della festa organizzate a Downing Street dai membri del suo gabinetto, durante il periodo delle restrizioni anti-Covid dell’anno scorso. Un caso che ha scatenato polemiche anche all’interno del mondo conservatore, con un malumore confermato dalla ribellione interna a metà dicembre scorso, quando 99 deputati Tories hanno votato contro il provvedimento anti-Covid del governo teso a contrastare la variante Omicron. Per Johnson, che si è dovuto appoggiare al sostegno dell’opposizione Labour per approvarlo, è stato il più grande “tradimento” subito. E negli stessi giorni, il 17, è arrivato un altro colpo, più simile a una batosta in realtà. Alle elezioni suppletive del seggio di North Shropshire, il collegio vicino la città di Birmingham nelle West Midlands, hanno vinto i liberal-democratici di Helen Morgan, con il 47,14%. Il partito conservatore è crollato, dimezzando il suo consenso e passando dal 62,7% delle elezioni del 2019, al 31,59%. Una pesante sconfitta, causata in parte dalle dimissioni dell’ex governatore conservatore, travolto dalle accuse di corruzione, e resa storica dall’importanza di quella circoscrizione, considerata una roccaforte conservatrice in cui da cento anni governavano i Tories.
Come se non bastassero questi motivi per impensierire Johnson, le settimane impegnative in cui ha piovuto sempre sul bagnato – un detto che a Londra calza particolarmente – sono culminate con le dimissioni del capo negoziatore britannico per la Brexit, David Frost. Nella sua lettera indirizzata al premier, Frost ha spiegato la sua decisione, dettata sia dalla contrarietà verso le ultime scelte governative nella gestione del virus sia dal fatto che, a suo modo di vedere, “la Brexit è ormai al sicuro”. L’addio di Frost, al cui posto – al tavolo delle trattative con Bruxelles – è succeduta la Foreign Secretary Liz Truss, in alcuni ambienti conservatori è stato inteso come un avvertimento per lo stesso Johnson. Inoltre, sui media britannici è emerso un caso, emblematico del clima teso tra le fila conservatrici, rivelato dal giornalista di Sky News Sam Coates. Dopo le dimissioni di Frost, infatti, in una chat telefonica di un gruppo di parlamentari Tories si è scatenata una discussione sulla leadership del partito. La ministra della Cultura Nadine Dorries, subito dopo aver difeso Boris Johnson, è stata rimossa dal gruppo, tra l’approvazione generale.
Insomma, l’aria è quella di tempesta, anche perché il governo e il Paese non navigano in acque tranquille. Non sorprendono quindi le numerose indiscrezioni e analisi che ipotizzano un cambio al vertice del partito conservatore, con l’obiettivo di recuperare terreno sui laburisti. Due figure spiccano più di altre pronte a succedere a Johnson: la già menzionata Truss e il ministro delle Finanze Rishi Sunak. Per la prima, la nomina a ministro Brexit potrebbe essere sia un vantaggio, nel caso in cui riuscisse a trovare un compromesso con Bruxelles ne uscirebbe rafforzata e con un peso specifico maggiore agli occhi dei membri di partito, sia un peso, visto che il dossier dell’uscita di Londra dall’Ue rimane forse il più complicato da gestire e potrebbe rimanere scottata. Sunak, invece, ha riscosso un discreto successo dal febbraio 2020, da quando è entrato nel governo come Cancelliere dello Scacchiere e si è trovato dopo pochi giorni una pandemia da affrontare. Ad ogni modo chiunque voglia sfiduciare il premier avrà bisogno di una mozione firmata da almeno il 15% dei deputati conservatori, avendo già il controllo di una possibile maggioranza tra di essi per superare il voto che aprirebbe un nuovo congresso.
L’altro sondaggio che indirettamente boccia il governo di Boris Johnson è quello condotto da Opinium sul tema Brexit, pubblicato dall’Observer. Più di sei elettori su dieci crede che l’uscita del Regno Unito dall’Ue stia andando male o peggio delle previsioni. Circa il 42% di chi ha votato per staccarsi da Bruxelles ora ha una visione negativa di tale scelta e il 26% dei sostenitori del Leave ammettono il peggioramento non previsto. Il governo Johnson è alla ricerca di una soluzione che sciolga il nodo nordirlandese, stretto dalla necessità di mantenere la stabilità nell’isola di Irlanda e dalle richieste europee per difendere il mercato unico. Di fatto si è messo contro gli unionisti della regione che si sentono abbandonati da Londra dopo aver svolto, anche nel recente passato, un ruolo fondamentale per Downing Street. I rappresentanti lealisti nordirlandesi, soltanto poco tempo fa, erano infatti la stampella necessaria per la maggioranza dell’ex premier Theresa May. Oggi hanno perso quel valore ma il loro malumore è cresciuto e Johnson deve tenerne conto.
Per adesso BoJo cerca di tenere la barra dritta ed è consapevole di avere alcune carte – o speranze – a suo favore. A prescindere dall’apparente goffaggine che lo ha accompagnato in alcune occasioni, le prime sue due doti sono il carisma e un acume politico non indifferente. Caratteristiche personali che gli vengono riconosciute e che gli hanno già permesso di superare altri momenti non favorevoli. Sono le stesse che hanno contribuito in larga parte all’ampio successo conservatore nelle elezioni del 2019 e anche il partito è cosciente di non poter sottovalutare le capacità di Johnson. Il problema per il premier è che gli altri assi nella manica sono solo ipotetici e riguardano la situazione pandemica ed economica in cui si troverà il Regno Unito (e un po’ tutto il mondo) nei prossimi mesi. La variante Omicron sta dilagando nel Paese, ma il premier ha ribadito la linea governativa contraria a nuovi lockdown o pesanti restrizioni, per non sacrificare la ripresa e per cercare di “normalizzare” il Covid nelle vite quotidiane. Anche perché la Gran Bretagna – come molti Stati, ma forse di più – non può permettersi di subire altri contraccolpi negativi, vista la coincidenza tra gli effetti della pandemia e quelli del primo anno dopo la Brexit. Se il virus allenterà la presa, con conseguenti risvolti positivi sull’economia, Johnson potrebbe rinsaldare il suo potere. Altrimenti, all’interno del partito conservatore sono già pronti a togliergli le chiavi di Downing Street.