Lo scrittore Jón Kalman Stefánsson ci aveva avvertiti: l’Islanda è una terra che non conosce sfumature, in cui la radicalità geografica e la potenza della natura sono in grado di influenzare i destini personali e collettivi dei suoi abitanti. Eppure, come ci insegna l’autore di “Paradiso e inferno” (Iperborea), gli islandesi, anche di fronte all’iniquità e alla fermezza del territorio, non smettono di lottare per uscire dal buio della notte artica.
Quella lunga notte nella quale il Paese sprofondò per davvero nel 2008, a causa della crisi finanziaria che lo lasciò indebitato ma, rispetto ad altri Paesi, con una situazione occupazionale migliore del previsto. Diversamente dalle altre nazioni colpite dalla crisi, quest’isola immersa nell’Atlantico ha individuato subito i responsabili della sua infelicità e ha deciso di non voler pagare per le loro colpe: al referendum del marzo del 2010, la maggioranza si oppose al rimborso di quasi 4 miliardi di euro di debiti a Gran Bretagna e Olanda. Un’opposizione che divenne l’emblema semantico e politico di una vocazione: salvare le persone, non le banche.
Ed è stata proprio la concretezza islandese, oltre ad uno sviluppato senso di giustizia e di identità, a permettere a questo Paese di uscire rapidamente da una crisi che altrove invece si è quasi cronicizzata. Se la Grecia è stata l’origine della cultura mediterranea, l’Islanda può essere di diritto considerata il luogo simbolico ed eccezionale della cultura germanica, come ci ha dettagliatamente spiegato Maurice Gravier negli anni ’60 (“Le miracle islandais: un pays moderne dans un île déserte”, Le Monde Diplomatique, mai 1966): non è un caso che entrambi i Paesi siano rimasti coinvolti in una crisi economica simile ma speculare. L’asprezza del territorio ha permesso all’Islanda di contrapporre all’astrattezza della speculazione finanziaria la realtà del lavoro, di un’economia à l’ancienne che, ignara dell’ aleatorietà trova rifugio nella tangibilità geografica. Il risultato è stato non solo un recupero dal punto di vista economico, ma soprattutto un rafforzamento identitario.
Dopo lo scandalo Panama Papers che ha investito sia il Primo Ministro che il Presidente della Repubblica, l’Islanda sembrava sul punto di concretizzare le promesse di rinnovamento: le elezioni del 29 ottobre scorso sarebbero dovute essere il palcoscenico dei Pirati, che i sondaggi davano in testa alle intenzioni di voto. Democrazia diretta e libertà d’informazione sono i due pilastri sui quali il partito di Birgitta Jónsdóttir, poetessa e attivista, ha costruito la sua identità, che però non sono bastati ad ottenere una vittoria. Di fatto nessun partito ha ottenuto la maggioranza dei seggi, restituendo l’immagine di un Paese frammentato. Una frammentazione che è l’estensione politica di due tendenze contrapposte, di derivazione squisitamente geografica: a metà tra il continente americano e quello europeo, l’Islanda si trova a dover fare i conti con un innato desiderio di identità sociale e un’altrettanto innata ambizione a guardare altrove, a creare legami verso un esterno che appare incredibilmente lontano e distante.