Le dichiarazioni rilasciate da Joe Biden hanno destato grande attenzione a livello internazionale, aprendo un aspro confronto tra Mosca e Washington. Durante un’intervista alla ABC, trasmessa nella giornata di mercoledì, il presidente statunitense ha dichiarato: “Vladimir Putin è un assassino […] pagherà per le sue interferenze nelle elezioni del 2020” generando la reazione indignata di Mosca, che ha richiamato il proprio ambasciatore a Washington, richiedendo scuse ufficiali. Il pessimo stato delle relazioni tra le due potenze è cosa ben nota, ma esternazioni del genere eccedono i limiti consentiti dalla diplomazia. Perché il presidente statunitense si è quindi espresso in questi termini?
L’intervista e le reazioni
Nell’intervista “incriminata”, Joe Biden ha sostanzialmente ricostruito i principali traguardi raggiunti in questi primi 55 giorni di mandato, affrontando i temi più diversi, dal processo di vaccinazione alla politica estera. Nel corso del confronto con George Stephanopoulos, uno dei giornalisti più in vista del palinsesto e coautore del celebre programma Good Morning America, toccando il tema dei rapporti con la Russia, alla domanda “Lei conosce Vladimir Putin, pensa sia un assassino?”, Biden ha risposto in modo piuttosto chiaro “Si, lo penso”. Il video dell’intervista ha fatto immediatamente il giro del mondo e le reazioni da Mosca sono state tempestive.
L’ambasciatore russo a Washington, Anatoly Antonov, è stato infatti richiamato a Mosca per consultazioni, mentre la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha affermato che le dichiarazioni dell’inquilino della Casa Bianca fanno “parte della strategia comunicativa dell’Amministrazione Biden per mascherare i propri insuccessi in vista dei primi 100 giorni di governo”. A guidare la reazione russa è stato, come spesso accade, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, che ha respinto al mittente tutte le accuse relative alle interferenze russe nelle elezioni statunitensi, affermando che le dichiarazioni sull’operato russo sono prive di fondamento, mentre ha glissato sulla definizione di “assassino” affibbiata al presidente russo. Il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, attraverso il proprio canale Telegram ha considerato le dichiarazioni del Presidente statunitense come “un affronto al leader del Cremlino e a tutti gli elettori che lo hanno sostenuto”. Nelle sue parole, a spiegare le dichiarazioni dell’inquilino della Casa Bianca è “il fallimento di tutte le iniziative volte ad indebolire la Russia […] è la frustrazione per l’impotenza”. Il valore delle roboanti dichiarazioni del presidente della Duma non deve essere però sopravvalutato, la camera bassa russa è spesso marginale nelle decisioni di politica estera e tali esternazioni hanno valore soprattutto sul fronte interno, al fine di compattare l’opinione pubblica russa contro quella che viene considerata l’ennesima interferenza negli affari domestici. Ad ogni modo, il Ministero degli Esteri ha reso noto che le consultazioni con l’ambasciatore richiederanno “tutto il tempo necessario”, lasciando presagire una reazione di pari tono.
La risposta del presidente russo Vladimir Putin e giunta solo nella giornata di ieri, durante una conferenza stampa in Crimea. “Chi lo dice sa di esserlo. Vediamo sempre in un’altra persona le nostre qualità e pensiamo che essa sia come noi e basandoci su questo diamo la nostra valutazione generale”, così il capo del Cremlino ha commentato le parole di Biden. Durante l’intervista rilasciata nella giornata di ieri, inoltre, Putin è tornato sulle relazioni tra Washington e Mosca affermando che la Russia coopererà con gli Stati Uniti ma alle proprie condizioni: “so che gli Stati Uniti, la leadership statunitense, è spesso incline ad avere determinate relazioni con noi, ma solo sulle questioni che interessano a loro e alle loro condizioni. Abbiamo un codice genetico, culturale e morale completamente diverso”. Dunque, Putin sembrerebbe confermare lo stesso approccio dell’Amministrazione Biden: cooperare da una posizione di forza.
Le dichiarazioni di Joe Biden: tra gaffe e questioni personali
Prima di ogni ulteriore considerazione sull’intervista, è bene contestualizzare lo svolgimento del dialogo tra Biden e George Stephanopoulos. Prima della dichiarazione “incriminata”, i due avevano infatti discusso del possibile coinvolgimento russo nelle elezioni presidenziali del 2020, una questione che ha toccato personalmente il presidente statunitense, tornata recentemente all’attenzione del grande pubblico. Lo scorso 15 marzo infatti, è stato pubblicato, nella sua versione unclassified, un report del National Intelligence Council attraverso il quale le principali agenzie di intelligence statunitensi confermerebbero il coinvolgimento del Cremlino, e di Vladimir Putin in particolare, nelle azioni di disinformazione operate dalle agenzie di sicurezza russe e dai loro proxy, durante la campagna elettorale per le presidenziali 2020. In particolare, tali operazioni sarebbero state finalizzate a delegittimare Biden, al tempo solo candidato, alimentando le accuse di corruzione ai danni della sua famiglia, in relazione al ruolo che suo figlio Hunter avrebbe avuto come membro del consiglio di amministrazione di un’importante società del settore energetico ucraino, nel periodo in cui esplodevano la guerra nel Donbass e le tensioni con la Russia e Biden era vicepresidente di Barack Obama. Di conseguenza, al netto di possibili gaffe, è possibile che il presidente abbia voluto reagire “istintivamente” alle azioni russe, soprattutto ora che sembrerebbero confermate.
Le contraddizioni dell’Amministrazione Biden
Nell’ultimo decennio, ma soprattutto con l’Amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno spostato la loro attenzione strategica verso la regione dell’Indo-Pacifico, area di cruciale importanza per la competizione con la Cina, potenza definita – insieme alla Russia – revisionista dalla National Security Strategy del 2017. È chiaro, dunque, che nonostante tale documento rilasciato dall’Amministrazione Trump considerasse la Russia come principale sfidante dell’ordine internazionale a guida americana nel breve-medio termine, i fatti dicono tutt’altro: la centrale attenzione all’area indo-pacifica e la conseguente attuazione di una politica di retrenchement (o selective engagement) in altri quadranti strategici come quello dell’Europa hanno portato la Russia a ricoprire il ruolo di competitor di secondo piano.
Con l’insediamento di Biden, la maggior parte degli analisti ha concordato sul fatto che, rispetto al suo predecessore, sarebbero potuti cambiare i toni e le modalità ma che, in sostanza, l’approccio strategico generale non sarebbe cambiato. Se questo è vero per la Cina – considerata dallo stesso presidente ma anche dai suoi principali esponenti di sicurezza nazionale (Blinken, Austin, Sullivan, Haines) come la minaccia principale alla sicurezza americana – non è altrettanto vero per la Russia. In questo senso, Biden confermerebbe la discontinuità già segnalata con Trump, che a differenza dei suoi predecessori non ha tentato un riavvicinamento strutturale a Mosca. Malgrado il rinnovo del Trattato New START all’indomani dell’insediamento dell’ex senatore del Delaware, tale trend sembrerebbe essere confermato da questi primi 50 giorni di mandato del leader democratico in cui non si sono risparmiati attacchi, anche pesanti, nei confronti della Russia. Proprio in questo si possono notare alcune contraddizioni sia nei discorsi dei membri dell’Amministrazione sia nel recente Interim National Security Strategic Guidance che delinea, seppur in maniera provvisoria, le linee guida dell’approccio strategico che adotterà Washington. Nel documento, in controtendenza rispetto alla NSS17 nella quale Cina e Russia erano sostanzialmente messe sullo stesso piano, Pechino viene espressamente riconosciuta come l’unico competitor potenzialmente capace di sfidare – sul fronte economico, diplomatico, militare e tecnologico – l’ordine internazionale liberale. Mosca invece, come chiarito dal Segretario di Stato Blinken, non ha le stesse capacità della Cina, seppur provi a rafforzare la sua influenza globale. Eppure, questo primissimo assaggio di presidenza Biden sembrerebbe dire il contrario. È possibile, dunque, che la Russia sia vista come il competitor principale? Questo spiegherebbe, in parte, le dichiarazioni del presidente americano, la volontà di continuare a sostenere le forze ucraine in funzione antirussa o la retorica dell’importanza delle “alleanze democratiche” contro i regimi autoritari.
L’uscita del leader democratico potrebbe essere vista anche come una ricerca di un maggiore appoggio dall’ala liberal del Partito Democratico, ala da sempre attenta alla questione dei diritti umani (si vedano, in tal senso, le sanzioni per il caso Navalny). Inoltre, esponenti dello stesso Partito hanno riaffermato la necessità di un approccio più duro verso il Cremlino. Michael McFaul, ex ambasciatore a Mosca (2012-2014) e consigliere per le relazioni con la Russia e il disarmo durante il primo mandato Obama, si è recentemente espresso, su Foreign Affairs, a favore di un contenimento assertivo delle ambizioni russe nel teatro euro-mediterraneo, rilanciando la necessità di un approccio più muscolare verso Mosca. Da ultimo, le dichiarazioni di Biden potrebbero servire da monito nei confronti di alcuni alleati, Germania in particolare, che esitano o cercano accordi con Mosca. A tal proposito, il presidente americano è sempre stato critico sul Nordstream 2 e, alla luce di quanto successo, non sembrerebbero improbabili delle sanzioni anche su questo fronte (lo confermerebbe il comunicato stampa rilasciato dal Dipartimento di Stato), soprattutto nel momento in cui la leadership di Angela Merkel e della CDU potrebbero essere messe in discussione a seguito della recente affermazione dei Verdi alle elezioni regionali tedesche, preludio delle prossime elezioni del Bundestag di settembre.
Ripensare la Russia?
Quanto emerso nel corso dell’intervista e le contraddizioni identificate in precedenza segnalano la necessità di ripensare la lettura occidentale del ruolo della Russia nel sistema internazionale. Dalla fine della Guerra Fredda, Mosca è stata descritta come un attore strutturalmente in declino, a causa delle difficoltà socioeconomiche interne e della ridotta influenza sul piano internazionale, generando un pericoloso bias che ha alterato la percezione della Russia come grande potenza nell’arena internazionale. Spesso, nell’affrontare la politica estera del Cremlino se ne mettono giustamente in luce le contraddizioni interne, ma la politica ambiziosa attuata negli ultimi anni dimostra che, almeno nel breve periodo, le idiosincrasie domestiche sono ben lontane dall’esplodere. Quanto visto finora potrebbe quindi tradursi nella volontà statunitense di concentrare la propria attenzione su Mosca, come monito per Pechino, separando quindi i tempi e i metodi di risoluzione delle due sfide, incrementando la pressione sulla Russia oggi mentre ci si prepara all’incontro di Anchorage con la Repubblica Popolare, alla quale si offre un’opportunità di dialogo, rinviando il momento del confronto più duro.