Le mid-term 2022 segnano una parziale vittoria del Grand Old Party, che conquista sicuramente la Camera dei Rappresentanti. Ancora incerto, invece, è il risultato al senato, che dipende dal voto di Arizona, Nevada e Georgia (quest’ultima prevede il ballottaggio, che si terrà a dicembre). Al momento, appare improbabile lo scenario della doppia sconfitta dei democratici, in vantaggio in due Stati su tre (ampio in Arizona, ristretto in Georgia). Joe Biden, pertanto, esce da questo appuntamento più debole di prima, ma probabilmente meno debole di quanto gli osservatori si sarebbero aspettati.
Solitamente, infatti, le elezioni di mid-term vedono avvantaggiata l’opposizione, che trasforma l’appuntamento in una sorta di referendum sul presidente di turno, utile a “sanzionarne” le politiche. In questo turno, pertanto, era presumibile che sarebbe stato il Grand Old Party ad avere maggiore capacità di mobilitazione del suo elettorato tanto da paventare un takeover repubblicano sia della Camera dei Rappresentanti che del Senato.
Le elezioni, tuttavia, hanno assunto anche la forma di un referendum su Donald Trump, ossia sulle sue chance nell’eventuale corsa, se scegliesse – come sembra – di intraprenderla, alle primarie repubblicane del 2024. Alla vigilia delle elezioni ci si aspettava un successo più schiacciante non solo del Partito Repubblicano, ma soprattutto dei candidati “trumpiani”. Alcuni di questi, Mehmet Oz in Pennsylvania in particolare, sono stati sconfitti contro tutti i pronostici. Al contrario, il principale opponent di Trump nella corsa alla primarie, il governatore della Florida Ron DeSantis, è uscito dalla tornata dell’8 novembre forte di una rielezione schiacciante (58% dei consensi).
Non è da escludere, inoltre, che di fronte a un’inaspettata debolezza di Trump la corsa alla primarie repubblicane risulti più competitiva del previsto, con il ritorno di fiamma anche delle candidature dell’ex ambasciatrice alle Nazioni Unite Nikky Haley e – forse – dell’anchorman di Fox Tucker Carlson.
L’indebolimento di Trump e il contestuale emergere di sfidanti “giovani” o, nel caso di DeSantis, provenienti dalla working class e con un passato nelle Forze Armate, potrebbe paradossalmente sfavorire anche Biden, che non sarebbe probabilmente il candidato democratico adatto per affrontare questo genere di sfida. Più comoda dal suo punto di vista, infatti, resta la candidatura del tycoon, proveniente come il presidente in carica dall’establishment e appartenente alla stessa generazione.
Per quanto riguarda la politica estera, invece, va ricordato che da sondaggi solo l’1% di americani è andato a votare avendo in mente questo tema, mentre quelli che hanno mosso maggiormente l’elettorato sono stati l’inflazione, l’immigrazione, la sicurezza, il lavoro e l’aborto.
Il risultato rafforza la condotta dell’amministrazione Biden sulla guerra in Ucraina, che in caso di sconfitta più sonora avrebbe dovuto prestare maggior ascolto alla richiesta dei 30 maggiorenti del Partito Democratico – espressa in una lettera firmata tra gli altri da Alexandria Ocasio-Cortez – di abbinare agli sforzi militari in favore di Kiev anche un più consistente sforzo diplomatico per la pace.
Ciò nonostante, occorre comunque rilevare che il presidente americano ha comunque iniziato a cambiare il suo approccio sul capitolo della guerra in Ucraina. Dopo aver definito per mesi Vladimir Putin “killer” o “macellaio” in una recente intervista alla CNN ne ha parlato come di un “attore razionale che ha drammaticamente sbagliato i calcoli”. Allo stesso modo il consigliere per la Sicurezza nazionale Jack Sullivan sembra sia stato inviato a Kiev anche per convincere i principali rappresentanti del governo a non rilasciare più dichiarazione in cui negano la disponibilità a sedersi a un tavolo negoziale con Putin. Mossa che può servire a non irritare gli alleati più propensi alle trattative, ma anche ad aprire effettivamente qualche spiraglio di pace con il Cremlino.