Gli Stati Uniti secondo Biden sono tornati. La sfida di breve periodo è con Russia e Iran. L’Europa Orientale e il Medio Oriente sono oramai un unico caotico campo di battaglia. Nuovi conflitti si prospettano all’orizzonte.
L’entrata di Biden alla Casa Bianca simboleggia il ritorno di una politica estera americana molto più intransigente e interventista di quella del proprio predecessore, riprendendo quella linea obamiana che era stata temporaneamente sospesa dall’amministrazione Trump.
Sebbene la Cina sia una delle più grandi sfide che gli Stati Uniti dovranno affrontare in questo XXI secolo, Iran e Russia sono nel breve periodo tra i tasselli più importanti per il balance of power della comunità internazionale.
Negli ultimi vent’anni il cosiddetto “ordine internazionale liberale” a guida americana ha conosciuto una progressiva frammentazione dagli attentati del 11 settembre 2001 in poi quando le campagne militari della super potenza, prima in Afghanistan (2001) e poi in Iraq (2003), hanno causato una progressiva escalation di violenza, alimentata dalla proliferazione di cluster geopolitici in quell’area geostrategica che Bernard Lewis ha denominato “Grande Medio Oriente”, allargatasi e unitasi oramai anche all’Europa Orientale a quella fascia chiamata da Brzezinski Arco di Crisi (si veda l’articolo La ripresa della Storia https://www.geopolitica.info/la-ripresa-della-storia/ ) entrata anch’essa in una pericolosa spirale di violenza a partire dalla guerra russo-georgiana del 2008. Proprio questa destabilizzazione ha generato dei vuoti di potere che hanno permesso a due grandi potenze telluriche come la Russia e l’Iran di riconquistare un ruolo di primo piano nell’ordine internazionale, promuovendosi come alternativa al caos dilagante.
Per il Cremlino, uno spartiacque importante del periodo storico attuale è stato il ritorno della Crimea sotto la sovranità russa nel 2014, a seguito dello scoppio della guerra civile ucraina (2013-2015), e l’intervento militare russo in Siria nel novembre 2015 a fianco del regime di Damasco. Tali eventi hanno segnato uno svolta nella storia della politica estera russa perché per la prima volta da oltre trent’anni Mosca si è impegnata, in un periodo di tempo relativamente breve, in due scenari di grande rilevanza, uscendo definitivamente “dal proprio giardino di casa” ed entrando sempre di più nel Mar Nero e nel Medio Oriente tramite la diplomazia e l’acquartieramento di truppe, istituendo così una presenza fisica nell’Asia Minore e aggirando contemporaneamente la NATO.
Da quel momento in poi le vicende europee hanno iniziato ad intrecciarsi con le vicende mediorientali creando un unico fronte esteso dal Mar Baltico fino al Mar Mediterraneo all’interno del quale Putin gioca un ruolo di soft power di primo piano. Per Washington, perciò, la Russia è una delle principali sfide dell’amministrazione Biden che, dopo la parentesi Trump, tornerà ad adottare una politica estera assertiva nei confronti di Mosca. La corrente “interventista liberale” di cui fa parte la presidenza Biden intende adottare nei confronti della Russia non una politica del contenimento ma una e vera propria politica del roll-back per costringere il Cremlino ad allearsi con l’Occidente in funzione anti-cinese. Le conseguenze potrebbero essere un’ulteriore destabilizzazione del fronte europeo all’interno del quale si potrebbe assistere alla recrudescenza di nuove guerre per procura non solo in Ucraina e in altri stati “satelliti” della Russia come la Bielorussia e la Moldavia ma anche nei Balcani, un’altra Pivot Area probabilmente sempre più cruciale per gli equilibri tra Russia e Occidente.
Il roll-back americano potrebbe generare crisi profonde in particolare con la Serbia che è sempre di più messa sotto pressione non solo dall’Unione Europea ma anche dall’allargamento della NATO che negli ultimi anni si è estesa al Montenegro (2017) e alla Macedonia del Nord (2020).
Sul fronte sud esercita un ruolo molto importante l’interventismo iraniano in Medio Oriente, la cui sfera di influenza è il risultato anche della scellerata decisione americana di abbattere il regime di Saddam Hussein nel 2003, aprendo di fatto “un portone” per la penetrazione di Teheran in Iraq.
L’ex vicepresidente di Obama durante la campagna elettorale si è timidamente presentato come il fixer degli errori dell’amministrazione Trump sulla minaccia nucleare iraniana ma la complessità della vicenda non fa ben sperare. La cauta apertura di Washington ad un nuovo dialogo è più che altro l’espressione della volontà della corrente minoritaria filo-iraniana del deep state americano che considera come propositivo il ruolo che l’Iran potrebbe ricoprire nella regione (si veda l’articolo L’Iran nell’Occhio del Ciclone https://www.geopolitica.info/liran-nellocchio-del-ciclone/ ).
Le pre-condizioni però per il ripristino del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) – l’accordo sul nucleare iraniano – sono troppe da entrambe le parti. Da una parte Teheran ritornerebbe nell’accordo ma vorrebbe che la prima mossa fosse di Washington. In più la Teocrazia iraniana pretende concessioni importanti come la caducazione di tutte le sanzioni, il riconoscimento della sfera di influenza persiana in Medio Oriente, un grande risarcimento a livello contrattuale per la morte del generale Qasem Soleimani oltre che garanzie americane sulla non ingerenza di Israele negli affari interni iraniani.
Dall’altra parte Washington vorrebbe che fosse per primo l’Iran a rispettare gli accordi pattuiti per l’arricchimento dell’uranio oltre che la rinuncia da parte di Teheran del proprio sistema missilistico e la fine di qualsiasi appoggio diretto e indiretto alla mezzaluna persiana nella regione (si veda l’articolo Soleimani e la mezzaluna persiana (più che sciita) https://www.geopolitica.info/soleimani-e-la-mezza-luna-persiana-piu-che-sciita/ ). L’amministrazione Biden molto probabilmente porterà avanti un dialogo lungo, difficile e duro con Teheran i cui risultati potrebbero essere però molto scarsi. Infatti, nessuno delle due parti vuole fare la prima mossa perché apparirebbe come una “contrizione” che ne danneggerebbe l’immagine politica con ripercussioni negative dal punto di vista negoziale. Qualora si dovesse arrivare ad una trattativa risolutiva, si integrerà l’accordo del 2015 con un protocollo aggiuntivo che ne modificherà alcuni articoli. L’unica certezza è che durante l’era di Biden la guerra tra Stati Uniti e Iran nel Siraq continuerà con il rischio di allargare ulteriormente il confronto anche ad altre zone come il Libano, l’Afghanistan e il Golfo Persico. I recenti bombardamenti in Iraq e Siria simboleggiano la volontà da entrambe le parti di voler cedere ben poco alla controparte con il rischio di una crescente spirale di violenza in cui da una parte Washington vuole indebolire l’influenza iraniana nella regione mentre Teheran vuole mantenerne il titolo di uti possidetis.
Ormai ai confini dell’Occidente si è creata una grande area di competizione estesa dall’Europa Orientale fino al Nord Africa in cui il caos regna sovrano e gli equilibri mutano di continuo. All’interno di questo caos potenze come la Russia e l’Iran stanno riscoprendo e ricoprendo sempre di più un ruolo geopolitico di antica memoria storica, risalente al periodo degli ex imperi russo e persiano. Gli Stati Uniti sono e saranno chiamati ad affrontare obtorto collo queste sfide nei prossimi anni. Non a caso, l’ex vicepresidente Biden ha dichiarato più volte la necessità di una nuova entente con gli alleati occidentali che permetta di rafforzare l’atlantismo europeo, fondamentale al fine di garantire l’egemonia americana nel mondo. “America is back!!” afferma Biden e i rebus geopolitici con Russia e Iran saranno fondamentali per il futuro dell’Occidente stesso.