Emidio Diodato è professore ordinario di Scienza politica presso l’ Università per Stranieri di Perugia, dove dirige il Corso di laurea magistrale in Relazioni internazionali e cooperazione allo sviluppo. È chair dello Standing Group Relazioni internazionali (SGRI) della Società Italiana di Scienza Politica (SISP). Insieme al professor Federico Niglia, è autore del volume “Berlusconi the Diplomat”, edito da Palgrave.
Partiamo dal titolo del libro scritto con Federico Niglia per l’editore Palgrave: come mai il titolo “Berlusconi the Diplomat”?
Il libro nasce dalla constatazione che la ricerca politologica ha sostanzialmente trascurato la figura di Berlusconi. Pochi scienziati politici hanno studiato la sua traiettoria politica in Italia e ancora di meno hanno analizzato il ruolo di Berlusconi nella politica internazionale. Generalmente, i suoi detrattori lo dipingono principalmente come l’uomo delle gaffe, mentre i suoi sostenitori vedono in Berlusconi un grandissimo negoziatore. Con Niglia abbiamo cercato di rispondere attraverso la ricerca empirica e l’approccio storico-politico alla domanda se sia esistito un Berlusconi diplomatico e che visione della politica internazionale abbia avuto. Il titolo nasce quindi dal quesito di ricerca. Rievoca certo il vecchio libro di Salvemini intitolato “Mussolini diplomatico”, ma non per fare un parallelo tra Mussolini e Berlusconi; anzi, per fare al contrario chiarezza sugli elementi di novità presenti della politica estera di Berlusconi e sfatare il pregiudizio del politico incapace sulla scena internazionale.
Cominciamo da Pratica di Mare. Nel 2002, in questa piccola località romana, Silvio Berlusconi organizzò un vertice con i 19 rappresentanti della Nato dove fu invitato anche Vladimir Putin. Durante l’incontro venne firmata la Dichiarazione di Roma, che secondo alcuni aprì le porte della Nato anche alla Russia. Molti dipingono questo episodio come un capolavoro diplomatico di Berlusconi. Qual è la sua opinione?
Berlusconi e i suoi sostenitori hanno costruito intorno a Pratica di Mare un mito su cui fondare l’ideale del grande negoziatore. Come tutti i miti, anche questo deve essere sfatato. Noi nel libro abbiamo ricostruito in maniera chiara il vero percorso che ha portato Putin e Bush ad avvicinarsi: è evidente che questo percorso prescinde dal ruolo di Berlusconi. Ci sono infatti stati incontri tra i due in cui Berlusconi non ha giocato alcun ruolo. Il Cavaliere ha sicuramente avuto una grande intuizione, nel 2001, nel corso del G8 di Genova, quando riuscì a organizzare un incontro tra Bush e Putin, in questo modo dando una spinta nella direzione dell’avvicinamento tra Stati Uniti e Russia. Ma i due avevano già avviato questo avvicinamento che poi è proseguito autonomamente dal ruolo di Berlusconi e dell’Italia. Certo Berlusconi tornò in gioco riuscendo a organizzare vicino a Roma l’evento più scenografico. Tuttavia, quella di Pratica di Mare è una storia che va a finire male. Poco tempo dopo l’incontro si avvertirono i primi segni dell’allontanamento tra Russia e Stati Uniti. Probabilmente già nel 2006 c’è stata la frattura definitiva, e poi nel 2007 abbiamo assistito all’annuncio di Putin che la Russia avrebbe adottato in campo internazionale una politica revisionista.
Se Pratica di Mare è un mito da sfatare, comunque ci dice qualcosa sullo stile diplomatico di Berlusconi, tutto basato sugli incontri personali e sui legami di amicizia che egli vantava non solo con i leader russo e americano. Era capace di fare diplomazia in maniera “ottocentesca”, ovvero facendo leva sui rapporti personali: un tratto distintivo del suo successo internazionale. È indubbio che Berlusconi si sia affermato in molte occasioni giocando la carta delle sue straordinarie capacità personali. Tale successo però è stata anche la ragione della sua disgrazia. Alla fine, se Berlusconi dovette lasciare il potere con un atto di dimissioni è per una sorta di “complotto internazionale”: ciò su cui aveva lavorato molto alacremente, cioè i rapporti personali, sono diventati un boomerang contro di lui.
Fa riferimento alle dimissioni del 2011?
Sì, certo. Berlusconi di fatto non era più un punto di riferimento internazionale. Si era creata una situazione molto difficile per cui sostanzialmente a tenere i rapporti con i responsabili delle politiche internazionali ed economiche erano il Presidente della Repubblica e il ministro Tremonti. Berlusconi era in una fase della sua vita molto particolare, segnata anche dagli scandali. Sicuramente c’è stata una pressione internazionale contro l’Italia alimentata anche da logiche speculative. Ovviamente ci sono tanti fattori che hanno portato alle sue dimissioni, ma indubbiamente non è affatto lontana dai fatti la ricostruzione che vede Sarkozy in prima linea – ma in parte anche Merkel – a operare esplicitamente per chiedere la testa di Berlusconi e costringere l’Italia a prendere i prestiti del Fondo Monetario Internazionale per evitare che la crisi del debito italiano diventasse una crisi europea. Saranno gli storici a definire meglio i contorni della vicenda, ma dalle testimonianze che abbiamo dai protagonisti dell’epoca (il premier spagnolo Zapatero e il segretario del Tesoro americano Geithner) il racconto è univoco: ci fu una chiara pressione internazionale che spinse Berlusconi alle dimissioni per fermare l’attacco all’Italia. Il Presidente Obama non partecipò al ‘complotto’, perché considerava la questione come un fatto tra europei; ma neanche si mise di traverso. Berlusconi ha quindi perso la partita più grande proprio in campo internazionale dove la sua personalità fu ribaltata da motivo di successo in causa del fallimento.
Vede? Oltre all’imprenditore, al politico, il Berlusconi diplomatico ci dice molto della sua parabola esistenziale. Nel 1994, quando “scese in campo”, Berlusconi era un imprenditore che aveva fondato un partito e aveva un’idea della politica internazionale piuttosto riduttiva, ossia come di una dimensione che riguardasse esclusivamente “gli affari della pace e della guerra”: qualcosa per cui lui non provava grande interesse. Egli credeva che la politica internazionale fosse una questione di cui si dovessero occupare i militari e gli esperti della sicurezza. È soltanto durante “la lunga traversata nel deserto”, tra 1995 e il ritorno al governo nel 2001, che egli cominciò a mettere in campo un’idea di politica internazionale. È in questa fase che portò il suo partito in Europa, ossia nel Partito popolare europeo. Inoltre iniziò a ridefinire la sua idea di “rivoluzione liberale” all’interno di un percorso di politica estera. Mi spiego meglio. Se guardiamo la politica estera di Berlusconi, notiamo come anche in questo campo egli abbia cercato di essere un innovatore. Ma non verso l’esterno: in fondo, Berlusconi non collocò l’Italia in maniera diversa rispetto al sistema delle alleanze. Egli propose certo una maggiore apertura verso la Russia, oltre a un cambiamento di prospettiva su Israele, e diede inoltre priorità all’americanismo rispetto all’europeismo. Ma queste sono sfumature di una sostanziale continuità bipartisan di politica estera. La grande innovazione stava all’interno. Egli pensava che la politica estera fosse uno strumento per fare quella rivoluzione liberale che rappresentava la sua bandiera ideologica. In questo c’è la novità: Berlusconi pensava a una politica estera per il popolo italiano. In questo c’è se volgiamo anche un elemento “populista”. Tuttavia, il risultato politico prevedeva la mediazione personale di Berlusconi, che si poneva, con la sua capacità – tipica del grande imprenditore e del grande uomo di intrattenimento – come l’uomo capace di fare una sintesi tra quelli che erano i bisogni dell’Italia, prevalentemente in campo economico, e la politica internazionale. Questa è la cifra più chiara del Berlusconi diplomatico.
Berlusconi era europeista? Qual era la sua posizione di fronte all’euroscetticismo italiano?
Berlusconi era un europeista convinto. In quanto liberale, vedeva nell’Europa quello che essa è sempre stata, cioè una comunità di Stati che sono uniti da principi liberali, di mercato e di diritti. Ciò nonostante, Berlusconi ha alimentato l’euroscetticismo in Italia come sentimento popolare. Una contraddizione che si spiega con più fattori. Innanzitutto, bisogna ricordare che Berlusconi, dopo aver promesso la grande rivoluzione liberale governò solo 8 mesi, per poi essere respinto all’opposizione. Nel frattempo, il governo Prodi fece “entrare” l’Italia in Europa ossia nella moneta unica (Maastricht) e poi nel trattato di Schengen. Ciò avvenne tra 1996 e 1998. Quando Berlusconi tornò al potere, la grande rivoluzione liberale doveva tener conto dei vincoli monetari europei. Insomma, non poteva più realizzare il suo programma in autonomia o come l’aveva pensato nel 1994. Il “vincolo esterno” limitava i suoi margini di manovra. Berlusconi non ebbe mai la forza e neppure la volontà di distruggere questo vincolo. Forse perché interessato a difendere comunque il suo impero economico e forse perché era in fondo un europeista. Avrebbe certo voluto cambiare l’Europa e le sue regole, ma non i presupposti dell’Unione Europa. Probabilmente fu la sua frustrazione rispetto all’incapacità di realizzare la rivoluzione liberale come l’aveva immaginata, a causa del vincolo europeo, a porlo comunque nel ruolo di chi soffia sul crescente euroscetticismo nazionale. Ma qui c’è un elemento aggiuntivo. Tutto ciò si combina col fatto che non soltanto era stato Prodi a decidere il cambio tra Euro e Lira, con l’ingresso nella moneta unica, ma Prodi rappresentava una certa idea di Europa. Quando Berlusconi tornò al governo, Prodi era divenuto presidente della Commissione europea. L’euroscetticismo fu alimentato dalle critiche contro il modo in cui Prodi aveva gestito l’ingresso dell’Italia nell’Euro e contro il ruolo di Prodi come suo oppositore in Europa. La critica all’Europa di Prodi alimentò nel Paese l’euroscetticismo. Comunque, di fronte alle grandi scelte sull’Europa, Berlusconi ha sempre alzato le mani. Ad esempio, si è parlato tanto del Fiscal Compact firmato da Monti dopo la caduta di Berlusconi, ma in realtà già l’anno prima il premier aveva di fatto accettato i criteri del patto di stabilità.
I rapporti tra Berlusconi e l’Europa sono poi stati condizionati dal fatto che egli guidava un governo di coalizione. Berlusconi è stato un grande leader ma ha sempre dovuto scendere a compromessi politici. Egli si è trovato nella prima fase della sua esperienza di governo con una Lega Nord europeista e un’Alleanza Nazionale diciamo euroscettica. La Lega pensava che l’Europa fosse ancora quella delle regioni, mentre AN portava con sé un bagaglio culturale per cui l’europeismo italiano aveva origine nell’antifascismo. Poi le questioni si sono ribaltate. Dopo l’ingresso nella moneta unica e grazie al ruolo di Fini, AN è diventato un partito europeista – Fini ha partecipato al tentativo di dare una Costituzione all’Europa – mentre la Lega ha indirizzato la sua polemica verso Bruxelles e il cosiddetto asse franco-tedesco. Quindi Berlusconi ha sempre avuto nella sua coalizione una forte componente di euroscetticismo con cui fare i conti. Tra l’altro, uno dei sui uomini di riferimento per la politica estera, Antonio Martino, era un dichiarato euroscettico. Anche dentro Forza Italia c’erano queste istanze, e Berlusconi ha sempre dovuto mediare. Comunque, in conclusione, la sua idea della politica internazionale si era forgiata al tempo della Guerra fredda, quando l’Europa era lo spazio della libertà. Egli voleva che l’Europa del post-Guerra fredda fosse più unita e più forte.
La politica estera di Berlusconi e quella di Prodi erano differenti?
Prendiamo due dossier scottanti. Se noi valutassimo la politica di Prodi rispetto alla Libia e rispetto alla Russia e la comparassimo a quella di Berlusconi troveremmo pochissime differenze. La difformità vera è nello stile. Berlusconi ha sempre esaltato il suo rapporto di amicizia personale con Gheddafi e Putin, mentre Prodi non penso abbia minimamente maturato simili sentimenti. Ma sulla sostanza poco cambia. Chi per la pima volta ha invitato Gheddafi in Europa, a Bruxelles, fu Prodi. Poi quando Berlusconi lo ha invitato a Roma lo fece con tutti gli onori, e tutti si ricordano le tende di Gheddafi a Roma. Ma in fin dei conti la politica estera italiana di avvicinamento alla Libia era bipartisan, e lo stesso discorso vale per la Russia. Le posizioni di Prodi rispetto alla Russia non erano molto diverse da quelle di Berlusconi: con la differenza che Berlusconi aveva in Putin un amico e forse cercava anche vantaggi personali.
Qual è la posizione di Berlusconi in merito alla guerra in Ucraina? E rispetto alla guerra in Libia del 2011?
Berlusconi era sostanzialmente un pacifista. Nel senso che da uomo di affari guardava al mercante della politica internazionale e non al soldato. Berlusconi diplomatico pensava a fare dell’Italia un nazionale commercialmente competitiva e non un fornitore di sicurezza internazionale. È vero, si fece coinvolgere nella guerra in Iraq, ma solo perché – nella sua presunzione – era convinto che avrebbe convinto Bush a non farla quella guerra. Berlusconi non è mai stato un uomo delle armi. Era un grande imprenditore che voleva un mondo pacifico. Forse anche le sue posizioni sulla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina si possono spiegare in questo senso. Certo anche l’amicizia con Putin ha significato qualcosa. Lo stesso si può dire nel caso della guerra alla Libia nel 2011. Un aneddoto illustra bene quanto detto. Quando Berlusconi andò a trovare Gheddafi in Libia, portò un settimanale di sua proprietà, il “Chi”, per sfogliare le immagini di famiglia dopo l’arrivo di un nipotino. Una rivista settimanale popolare, utilizzata come un album di famiglia da mostrare a Gheddafi, dice molto di Berlusconi e del tipo di rapporto che egli intendeva intrattenere con i suoi interlocutori. Berlusconi faceva politica estera anche utilizzando elementi che riguardavano la sua vita privata, la sua famiglia. Egli ha senza dubbio cercato di evitare la guerra in Libia e se fosse stato primo ministro italiano avrebbe fatto di tutto per evitare il coinvolgimento nella guerra in Ucraina, magari con una politica di appeasement verso la Russia. Però poi di fronte alle scelte di campo, Berlusconi è stato sempre dalla parte degli Stati Uniti: in fondo ha sempre creduto più all’alleato americano che agli alleati europei. Pure essendo un europeista, si è sempre fidato più degli Stati Uniti. Penso che in fondo, più che la tanto decantata Pratica di Mare, per Berlusconi il suo vero successo internazionale sia stato il suo discorso al Congresso americano nel 2006.
Qual è stata la posizione di Berlusconi in merito alla guerra in Afghanistan? Si può dire che è stata la guerra di Berlusconi?
No, la guerra in Afghanistan godeva di un supporto sostanzialmente bipartisan. Tutto il Parlamento era favorevole all’impegno in Afghanistan. Le cose sono leggermente cambiate con l’avvio delle operazioni americane in Iraq nel 2003. Da quel momento la sinistra più radicale ha cominciato a esprimersi in maniera più critica sull’Afghanistan. Ma la guerra in fin dei conti è stata appoggiata da tutto il Parlamento. Non è quindi la guerra di Berlusconi, per quanto il suo governo abbia tra i primi dato la propria disponibilità a sostenere gli Stati Uniti e in maniera molto convinta.
Colgo l’occasione per introdurre un ulteriore elemento, che penso sia rilevante per comprendere il Berlusconi diplomatico. Quando il Cavaliere tornò al potere nel 2001 non trovò solo il vincolo monetario europeo, ma anche un diverso contesto internazionale. Egli rimase molto colpito da quello che accadde a Genova. Berlusconi visse quei momenti in maniera molto intensa. Alan Friedman nel suo libro racconta di un grande sfogo di Berlusconi a Genova dopo gli eventi del G8. Dopo i fatti di Napoli del G7, nel 1994, quando il ‘Corriere della Sera’ aveva anticipato l’avviso di garanzia che poi portò alla crisi del primo governo Berlusconi, Genova era divenuta in qualche modo, nella testa di Berlusconi, un’opportunità per rifarsi. Ho già detto che aveva organizzato l’incontro tra Bush e Putin nella prefettura della città. Ma i tragici eventi di quella giornata rovinarono i piani del Cavaliere che iniziò a nutrire un forte sentimento ostile al movimento anti-globalizzazione. Poi c’è stato l’attentato alle torri gemelle. Anche questo episodio colpì molto Berlusconi – egli fece in quei giorni dichiarazioni controverse, che vennero forse fraintese, ma che evocarono a una presunta superiorità della civiltà occidentale. Da questi fatti Berlusconi cominciò a sviluppare un’idea della realtà più conflittuale e conservatrice, soprattutto nella lotta al terrorismo islamista ma più in generale contro quelli che egli considerava i nemici dell’Occidente: una sorta di scontro di civiltà. Questi temi cominciarono a essere tematiche di rilievo anche per una figura come la sua, che, come ho detto, era stata alquanto pacifica e dedita al tema dell’economia. È un elemento di “politicizzazione” del diplomatico che stona un po’ con il Berlusconi degli anni precedenti. È vero che la politicizzazione sta nel Berlusconismo, nella sua polemica contro i comunisti, ecc. ma quel tipo di polemica era sostanzialmente retorica. Quando Berlusconi diceva “mio padre mi ha insegnato ad avere il sole in tasca” in fondo non mentiva: egli non vedeva la politica come ci insegna Schmitt, ovvero basata sulla distinzione amico/nemico. Egli ha sempre cercato di farsi tutti amici – salvo poi perdere il controllo quando qualcuno continuava a considerarlo invece come nemico. Dopo il 2001, tuttavia, soprattutto a livello internazionale la logica nemico/amico rispetto alla questione del terrorismo cominciò a prendere piede anche nella testa di Berlusconi. Va detto che egli non ha mai avuto un think tank di riferimento, un centro studi di politica estera che si occupasse di contribuire alla linea del partito. Ha sempre fatto un po’ da sé, seguendo l’intuito, e parlando con alcuni consiglieri come ad esempio Valentino Valentini. In quella fase di maggiore politicizzazione credo si fece influenzare da Giuliano Ferrara, e forse anche da Marcello Pera, andando oltre il partito liberale di massa, aggiungendo cioè elementi più conservatori. Forse questo rese il Berlusconi diplomatico un po’ più vicino al soldato, ovviamente nella difesa della civiltà occidentale.