Le notizie sulla crescita economica cinese, sia pur rallentata da squilibri macroeconomici, indebitamento complessivo e “guerra commerciale” con gli Usa, confermano sostanzialmente la portata dei risultati conseguiti dal Presidente Xi Jinping sul piano interno nel consolidare il sistema di potere guidato dal Partito Comunista Cinese. Un potere sempre più accentrato nella figura di un Presidente ormai svincolato da termini di mandato e, apparentemente, da qualsiasi apprezzabile forma di opposizione interna.
La trasformazione “neo imperiale” della potenza cinese avvenuta in questo decennio muta radicalmente i presupposti sui quali si erano basate le politiche americane e europee dall’inizio della Presidenza Clinton. Lo sviluppo prodigioso dell’economia cinese e i successi registrati – sia pure con le carte spesso truccate della sottrazione illegale dei dati a aziende e ricercatori occidentali – in campo scientifico e tecnologico (intelligenza artificiale, quantum computing, spazio e armi di ultimissima generazione) sono stati indotti e sostenuti da una globalizzazione con vantaggi pesantemente unidirezionali per la Cina.
Ancora sino a primi anni duemila, ad esempio, quando Pechino vantava un’economia già tre-quattro più volte grande della nostra, e con tassi di sviluppo almeno quadrupli, la Cooperazione allo Sviluppo italiana ancora elargiva finanziamenti a dono e crediti di aiuto all’industria cinese, mentre le nostre aziende sul mercato cinese lottavano con difficoltà di ogni tipo ingigantitesi nel marketing, nel recupero dei crediti soprattutto dagli enti statali, nella tutela della proprietà intellettuale. Ciononostante sembra prevalere nel dibattito che si sta sviluppando nel nostro Paese sui grandi temi della BRI, della Via della Seta e in generale sul rapporto tra Europa e Cina una tendenza all’accoglienza entusiastica e incondizionata alle tesi di Pechino che magnificano i grandi vantaggi dei finanziamenti cinesi, la visione di una globalizzazione guidata Pechino, e persino la “superiorità” del modello sociale, politico e dell’ideologia cinese rispetto allo Stato di Diritto occidentale. Abbiamo persino ascoltato, in alcuni dibattiti dello scorso agosto, personalità politiche di grande esperienza di Governo e nelle Istituzioni Europee, che dovrebbero quindi essere particolarmente sensibili nell’affermare lo Stato di Diritto e i principi della democrazia liberale nel mondo – come scritto nei Trattati europei – ripetere come verità rivelata che BRI e Via della Seta costituiscono “il Piano Marshall” di questo primo secolo del millennio, riprendendo pedissequamente gli argomenti e la propaganda di Pechino.
Ciò dovrebbe preoccupare quanti dovrebbero essere sensibili alla contrapposizione valoriale, in termini di libertà e di dignità della persona, tra l’impostazione sostenuta alla fine del secondo conflitto mondiale dal Segretario di Stato Marshall e il “pensiero unico” affermato da Xi Jinping e dalla sua classe dirigente. Le recenti missioni in Cina del Sottosegretario Geraci e del Ministro Tria, e da ultimo del Vice Primo Ministro Di Maio, si sono concluse con enfatiche dichiarazioni sui vantaggi di possibili acquisizioni cinesi in comparti strategici, nelle reti di trasporto e nelle alte tecnologie, nonché di interventi di Pechino sul nostro debito pubblico. Accenno, quest’ultimo, che ha dovuto essere poi immediatamente rettificato perché aveva causato l’aumento, nei mercati, dei tassi di interesse del nostro debito pubblico e dello spread.
Questa tendenza non è purtroppo nuova nel mondo politico e imprenditoriale italiano. C’è troppo spesso l’ansia di dimostrare di “essere i primi” nel cogliere facili opportunità in mercati estremamente complessi, e in paesi dove regole del mercato, rispetto degli investitori stranieri, parità di trattamento e reciprocità passano sempre dopo, molto dopo, le priorità di un interesse nazionale interpretato in chiave marcatamente ideologica, nazionalista e persino “militarista”. Molti imprenditori si rendono ora conto dell’errore commesso nel credere agli appelli dell’ex PdC Renzi per valorizzare l'”Eldorado iraniano”. In misura ancor più macroscopica tutto rischia di ripetersi a proposito degli investimenti cinesi e delle strategie di Pechino in Occidente. Per il momento il dibattito in Italia sulle preoccupazioni che essi sollevano non sembra ancora iniziato, o per lo meno non ha prodotto i risultati concreti e le riflessioni sulle misure da adottare che invece stanno emergendo a Washington, Bruxelles, Parigi, Berlino, Madrid, Londra.
Trump, Macron, Merkel, May, le categorie imprenditoriali dei settori maggiormente “a rischio” di acquisizione cinese, così come ampi strati dell’informazione americana e dei principali Partner UE manifestano serie preoccupazioni e stanno predisponendo misure di tutela dei propri interessi nazionali.
Non dovrebbe l’Italia, con la necessità assolutamente vitale di tutelare il “Made in Italy” nelle imprese strategiche oltre che nei beni di consumo e nei servizi, dimostrarsi ben più sensibile al proprio interesse nazionale e alla esigenza di una oggettiva valutazione della “questione Cinese”? Si tratta di una narrativa sulla quale influiscono enormi interessi economici, pubblici e privati, di sicurezza, di influenza, di visione geopolitica, di tutela delle libertà, di privacy e sicurezza nella “rete”, di attaccamento a valori fondamentali – Stato di Diritto, libertà politiche e diritti umani – che ogni Europeo dovrebbe sentirsi ad ogni costo impegnato a affermare. Ciò dovrebbe in particolare valere ai “tavoli” delle trattative multilaterali dove Governi e Istituzioni Europee decidono, regole, comportamenti e composizioni di interessi nazionali su questioni di vitale importanza per i loro popoli.
Non è stato raro ascoltare e leggere nelle discussioni estive sulla BRI che questo primo secolo del Millennio debba ineluttabilmente essere “Cinese”: non soltanto per l’Asia, ma anche per l’Eurasia, e quindi per noi tutti. La grande massa geopolitica che si estende dalle steppe dell’Asia centrale attraverso Caucaso e Urali sino al Grande Mediterraneo e alle regioni Atlantiche dovrebbe, secondo alcuni “maitres à panser” di Pechino, progressivamente slittare verso la sfera di influenza cinese, alternativa a quella sinora a guida americana. Xi Jinping fa poco o nulla per ridimensionare queste ambizioni. Al contrario, il Presidente Cinese non perde occasione per sottolineare come la BRI sia “il progetto del secolo” e il “regalo della saggezza cinese allo sviluppo del mondo”.
Su questo sfondo le iniziative diplomatiche, commerciali, finanziarie e militari di Pechino stanno acquisendo un “crescendo” nel quale hanno trovato perfetta collocazione la grande esercitazione militare russo cinese di fine estate – con trecentomila soldati, mille carri armati, centinaia di aerei e comandi integrati russo cinesi – e gli ormai continui e entusiastici incontri tra Putin e Xi. I due leader si riservano il privilegio di chiamarsi “i migliori amici” l’uno per l’altro: plateale e ricercata santificazione che entusiasma anche taluni, non sempre disinteressati, esegeti del pensiero cinese e dei valori euro-asiatici.
I motivi per vederci chiaro, prima di correre
Molti commentatori occidentali hanno rilevato la notevole opacità, probabilmente voluta, della strategia di Pechino. Se “road” sembra riferirsi essenzialmente a vie d’acqua, e “cintura” a infrastrutture tra Cina e Europa che colleghino ferrovie, strade, telecomunicazioni – importantissima nel progetto cinese la dimensione Cyber – sono certamente molti i paesi e Governi asiatici, mediorientali e africani, e non pochi i politici e gli imprenditori europei, ansiosi di accogliere finanziamenti cinesi “senza condizioni”: negoziati con metodi e interlocutori spesso assai disinvolti sotto il profilo della lotta alla corruzione, delle garanzie di sicurezza sociale e dei diritti dei lavoratori. Le considerazioni di natura economica, pur problematiche sotto diversi profili, assumono colori ancor più inquietanti ove si consideri invece che il disegno di Pechino faccia parte di un progetto geopolitico per il “nuovo ordine mondiale” nel quale la Cina intenda assumere il ruolo di Superpotenza dominante. Un progetto che viene da lontano, ma che assume ora una sua marcata assertività in dichiarazioni, documenti, iniziative diplomatiche e militari, oltre che commerciali e finanziarie, della Cina di Xi Jinping.
Questa ultima ipotesi diventa ancor più realistica a causa dell’opacità del gigantesco impegno finanziario ostentato da Pechino in una quantità di occasioni. Qual é il “blueprint” della BRI e della Via della Seta, ci si chiede in Occidente e in molti paesi interessati dell’Asia, dell’Africa e del Medio-Oriente? Quali sono i motivi dei continui ampliamenti che Pechino propone ai suoi orizzonti, dall’iniziale contesto Eurasiatico e Africano (“Vie della Seta” terrestri e marittime) a quelli della “Via della Seta nel Pacifico”, della ” Via della Seta sul ghiaccio” nell’Artico e ora della “Via della Seta digitale” attraverso lo spazio cyber?
Le preoccupazioni aumentano quando si constata che la BRI si lega a un ormai definito “culto della personalità” di Xi. La stampa cinese ha ribattezzato l’iniziativa “cammino di Xi Jinping”. Si sollecitano apprezzamenti dei Governi stranieri, così da farli rimbalzare nella martellante propaganda interna.
Esperienze
Un’analisi delle strategie e intenzioni di Pechino deve anzitutto riguardare i rapporti con i Paesi vicini. Gran parte dell’Asia deve ora riconoscere che il gigante cinese non può essere visto soltanto come un partner commerciale. Con la ricchezza e il successo si è diffusa la capacità di attrazione del modello cinese. Ciononostante sono numerose le riserve e non di rado le nette opposizioni a seguire i “desiderata” di Pechino: perfino da parte di Paesi come il Myanmar, considerati per decenni sottomessi politicamente e economicamente alla Cina. Nel 2011 le proteste popolari contro l’allagamento di villaggi e la distruzione dell’ecosistema per fornire elettricità al grande vicino attraverso un sistema di dighe sull’Irrawaddy avevano ucciso l’insano progetto. Si discute ora di quale vero interesse abbia il Myanmar alla realizzazione del porto di Kyaukphyu nel Golfo del Bengala, con annessa “Zona Economica Speciale”, all’astronomico costo di 7.3 Mld $. CITIC, finanziato da un conglomerato dello Stato cinese che avrebbe una quota del 70% e la gestione per cinquant’anni. Il porto sarebbe di enorme valore per la Cina: darebbe accesso al mare all’importante Provincia dello Yunnan e consentirebbe alla flotta mercantile e militare cinese di svincolarsi dallo Stretto di Malacca. Lasciano però molti dubbi le modalità di rimborso del prestito cinese per finanziare il 30% della quota birmana. Tutti conoscono infatti quanto avvenuto solo lo scorso anno con il finanziamento cinese per il Porto di Hambatota in Sri Lanka, passato direttamente in mani cinesi con 69 Kmq di territorio circostante perché, nel giro di pochissimo tempo, il Governo locale non è più stato in grado di onorare il servizio del debito. L’interesse birmano a realizzare il progetto di Kyaukphyu è assai discutibile, data la sua lontananza dalla regione di Yangoon, vero centro economico del Paese. Ma ora l’insistenza di Pechino decuplica, dato che Myanmar viene posta dagli strateghi di Pechino proprio sulla ” Via della Seta Marittima del 21° secolo”.
L’indeterminatezza progettuale delle diverse “Belt and Road” terrestri e “Silk Road” marittime sembra fatta apposta per sostenere la proiezione globale della potenza economica e militare cinese. Essa riecheggia un documento elaborato 13 anni fa dal People’s Liberation Army sulla “collana di perle” intesa a collegare la Cina a sue basi militari anche molto lontane dalla massa continentale, ma tra loro ben coordinate. Ne è buon esempio la nuova base navale cinese nel Pacifico meridionale, a Vanuatu, a 1.900 Km da Brisbane. I termini del contratto di finanziamento sono, come di consueto, tutt’altro che rassicuranti. Si tratta di un prestito quindicennale al tasso del 2.5% stipulato da Vanuatu con l’ente statale di Pechino ExIm Bank, che può essere annullato in caso di non pagamento anche di una sola rata.
I valori aggregati di cui si continua a parlare per BRI e “Vie della Seta” sono certo imponenti ma non ancora tali da comportare un “dominio finanziario globale”. Le preoccupazioni più immediate riguardano i condizionamenti che il Governo e gli enti statali cinesi sono perfettamente in grado di esercitare in Europa, e in Italia in particolare, ogni volta che Pechino intenda acquisire aziende di valore strategico per i nostri Paesi e per il “Made in Italy”: sempre a condizioni estremamente svantaggiose per il “sistema Italia”, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la tutela dei dati informatici, la protezione delle tecnologie, e l’assenza di qualsiasi condizione di reciprocità.
Se il quadro descrive quanto avvenuto nell’ultimo decennio in Occidente, senza che le più importanti economie del mondo si ponessero seriamente l’obiettivo di instaurare con Pechino regole del gioco eque, rispettose della legalità e degli accordi sottoscritti, se interessi pubblici e privati legati a convenienze del giorno per giorno hanno fatto sì che si sia lasciata a Pechino la mano completamente libera nello sfruttare i “mercati aperti” che lobbies e gruppi di potere in America e in Europa mettevano ben volentieri a loro disposizione, ben possiamo immaginare quanto sia avvenuto, stia avvenendo e ancora avverrà nelle economie più deboli del pianeta, governate in molti casi da autocrati o presidenti a vita, sorretti da ristrettissime “elites” locali, operanti di fatto al di fuori di qualsiasi controllo popolare, di trasparente informazione, e di legalità sanzionata.
Nei mesi scorsi un think tank particolarmente autorevole nelle questioni dello Sviluppo Sostenibile – il “Centre for Global Development” – ha pubblicato una ricerca su otto paesi che sono ad alto rischio di “collasso finanziario” a causa dell’indebitamento contratto da quei Governi nella “Belt and Road Initiative” (BRI). Si tratta di Laos, Kyrgyzstan, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tajikistan, Mongolia Pakistan. In meno di due anni, la percentuale debito/PIL è passata per effetto dei progetti cinesi BRI, rispettivamente (a cominciare dal Laos) da circa 50% al 70%; dal 23% al 74%; dal 39% al 75%; dal 10% al 42%; dall’80% al 95%; dal 55% all’80%; dal 40% al 58%; dal 12% al 48%.
In Montenegro l’autostrada finanziata da Pechino configura il solito “patto leonino”, dato che l’ammontare del debito corrisponde a un quarto dell’intero PIL del paese; la ferrovia in Laos alla metà del PIL annuo. Si è stimato che nel solo quadriennio 2010-2014 il Governo Cinese abbia finanziato progetti pari a 354 Mld $, tre quarti dei quali a tassi di mercato. Non solo Trump ha definito “predatorie” tali iniziative, ma la stessa Christine Lagarde – Direttore esecutivo del FMI – ha sottolineato la loro problematicità, auspicando che “la BRI viaggi esclusivamente dove è realmente necessario”.
Non era neppure dovuto questo richiamo per convincere Nepal, Myanmar e ancor più Malaysia a dire “no grazie”. Tra le primissime decisioni del nuovo Primo Ministro Malese vi è stata quella di azzerare gli impegni BRI del suo predecessore, presi in un contesto di giganteschi profitti personali e di una corruzione che ha portato alla sua rimozione e incriminazione. Anche per il Pakistan sembra ridimensionarsi un altro mega-progetto BRI, il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC). Un argomento molto forte contro la “politica di sviluppo” cinese riguarda, da molti anni ormai, i ritorni economici per i Paesi destinatari degli investimenti cinesi. Prendendo in esame il progetto “Reconnecting Asia” per investimenti direttamente finanziati da Pechino nei trasporti in 69 paesi dell’Eurasia, si è constatato che la quasi totalità di questi progetti, l’89%, viene attuata da imprese cinesi. Ben diversamente, quando analoghi progetti sono finanziati da organizzazioni multilaterali, il 40% dei contractors è locale, il 30% di imprese straniere e solo un altro 30% di imprese cinesi.
Conclusioni
L’UE sta insistendo con Pechino affinché al centro della BRI e delle Vie della Seta siano poste regole precise su trasparenza, standard nel mercato del lavoro, sostenibilità del debito, appalti e ambiente. Nei primi mesi del 2018 tutti gli Ambasciatori UE a Pechino, eccettuato l’ungherese, hanno firmato un rapporto per Bruxelles nel quale hanno definito la BRI una sfida alle regole del libero mercato e una manna per i sussidi statali. Per parte sua Atene, che ha ceduto alla compagnia COSCO nel 2016 il porto del Pireo per 312 Mil $, ha bloccato l’UE nel prendere posizione sulla militarizzazione cinese degli isolotti nelle zone del Pacifico reclamate anche da Filippine, Vietnam, e oggetto della controversia con gli Usa e tutti gli altri Stati della regione. L’UE non ha ancora potuto lanciare un’iniziativa efficace per l’esame degli investimenti cinesi, ed è atteso un rapporto dell’Alto Rappresentante Mogherini. Nel frattempo iniziative molto opportune sono state avviate in seno al Parlamento italiano.
Lo scorso 26 giugno il Senatore Adolfo Urso ha presentato una interrogazione al Governo rilevando che “gli investimenti cinesi in Italia ed in Europa sono in continua espansione. Secondo gli ultimi dati Merics (Mercator Institute for China Studies) “l’Impero di Mezzo” ha investito in Italia nel periodo 2000-2017 circa 14 miliardi di Euro… In Europa nel solo 2017 gli investimenti diretti esteri (IDE) cinesi hanno superato i 30 miliardi ed il flusso di capitali è principalmente legato ad aziende con diretta o indiretta partecipazione dello stato. Infatti la maggioranza degli IDE cinesi nell’Unione Europea nell’anno 2017 provengono da aziende statali ed i settori maggiormente attrattivi per i capitali cinesi sono infrastrutture critiche di importanza nazionale in settori strategici come trasporto, energia e digitale […]. La Cina attraverso le sue controllate ha quindi accesso ad informazioni di importanza strategica nazionale ed europea a proposito di investimenti talvolta strettamente legati a strategie geopolitiche mondiali come nel campo dell’approvvigionamento di energia o a brevetti ed innovazioni tecnologiche come nel settore digitale e dell’automazione. Tutto questo senza che esista a livello europeo un vero e proprio scudo contro gli investimenti impregnati da intenti politici a volte intrusivi e che talvolta mettono dubbi sul fatto se in settori strategici strettamente legati alla sicurezza nazionale ed europea possa essere accettata la presenza di potenze straniere sulla plancia di comando. Inoltre gli investimenti di aziende italiane ed europee in Cina sono fortemente condizionati da restrizioni di accesso al mercato e quindi il principio di reciprocità non è rispettato mettendo le nostre aziende in una condizione di disparità competitiva che avvantaggia fortemente le aziende cinesi. A differenza dell’Unione Europea, gli Stati Uniti hanno un sistema di controllo degli investimenti stranieri attraverso il Cifius, cioè un comitato che verifica se determinati investimenti stranieri possano arrecare danno alla sicurezza nazionale. In Europa un tale sistema non esiste ed è solo in discussione ora una proposta della Commissione che praticamente si base su un sistema di coordinamento dei sistemi di screening nazionali […]”.
La Camera dei Deputati ha per parte sua avviato una indagine conoscitiva “per delineare un quadro coerente ed oggettivo sulla politica estera dell’Italia declinata in chiave di strategia energetica, verificandone priorità ed implicazioni geopolitiche nella prospettiva dell’interesse nazionale […]. Il versante euroasiatico rappresenterà un focus di approfondimento nella consapevolezza dell’importanza delle relazioni con attori come la Russia e la Cina, sia a livello bilaterale sia in ragione di progetti transcontinentali come la “Nuova Via della Seta”, lanciata da Pechino. L’attività d’indagine si articolerà principalmente in audizioni di soggetti rilevanti ai fini dei temi trattati […]”.